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Carta delle Autonomie: per un percorso condiviso. L'intervento del senatore Carlo Vizzini al convegno del 14 giugno

Creato il:  16 Giugno 2011

Il convegno odierno rappresenta un'occasione certamente preziosa: esso ci invita a riflettere sul percorso di riforma che il Parlamento ha intrapreso, nel corso di questa legislatura, per completare, in modo organico e coerente, il processo di decentramento, non solo organizzativo, ma anche istituzionale e fiscale, le cui origini risalgono ormai nel tempo, ma che, soprattutto in questi ultimi anni, ha assunto un carattere particolarmente incisivo, producendo un impatto assai rilevante sulla struttura costituzionale della Repubblica.
A tutti noi non sfugge che la crisi della cosiddetta “Prima Repubblica” non fu solo crisi dei partiti “storici” della democrazia italiana, ma fu anche crisi dell'assetto ordinamentale che avevamo ereditato dalla tradizione giuspubblicistica di matrice ottocentesca. Proprio da quella crisi prese avvio il grande processo di valorizzazione delle autonomie territoriali, che si svolse attraverso alcuni passaggi fondamentali, a cominciare dalla prima riforma dell’ordinamento degli enti locali e dalla legge sull’elezione diretta del Sindaco. La trasformazione che si è svolta a cavallo tra i due secoli ha visto, dunque, quale elemento di assoluto rilievo, il rafforzamento delle istituzioni territoriali: una società complessa e articolata non si lasciava più ingabbiare in semplicistiche rappresentazioni, rifuggiva dalle sintesi totalizzanti e richiedeva politiche pubbliche adeguate alle tante specificità che la caratterizzavano e che trovavano proprio nel territorio il luogo della loro emersione e della loro individuazione.
La stessa globalizzazione, da parte sua, ha portato - quale ricaduta -  l'accentuazione di forme di competizione che sono sempre più competizioni tra “sistemi territoriali”: le trasformazioni della politica e quelle dell’economia che il fenomeno della globalizzazione ha imposto a ritmi molto rapidi convergevano verso una progressiva e accentuata valorizzazione del territorio.
Sul piano più squisitamente legislativo, la promulgazione della legge costituzionale n. 3 del 2001, di riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, ha rappresentato, nella recente storia italiana, la fase più incisiva di riforma dello Stato in senso federale. Ciò è avvenuto - come è noto -  all'esito di un percorso caratterizzato da molteplici e significativi tentativi di riforma: la commissione Bozzi, la Commissione bicamerale De Mita - Iotti, il Comitato Speroni, la Commissione bicamerale D'Alema, il progetto Amato che, in qualità di Ministro delle riforme, presentò un disegno di legge di revisione del Titolo V.
La riforma approvata nel 2001, al termine della XIII Legislatura, benché non fosse in quel momento una riforma condivisa, modificò profondamente il quadro istituzionale, accelerando il progressivo decentramento del potere dallo Stato agli enti locali. Essa si inseriva all'interno di un fenomeno che stava caratterizzando molti altri ordinamenti europei: in quegli anni,  infatti, nei principali Paesi del nostro Continente, giunsero a maturazione progressivi processi di decentramento territoriale.
Con la riforma del Titolo V, si determinò, forse anche al di là delle intenzioni del legislatore di allora, un'autentica rivoluzione copernicana nel nostro sistema costituzionale:  con il nuovo articolo 114 si affermava - per la prima volta -  la pari dignità tra lo Stato e gli altri enti autonomi (comune, provincia, regione e città metropolitana), tutti espressione della sovranità popolare, tutti componenti paritari della Repubblica.
Nonostante gli ambiziosi obiettivi che il processo riformatore sembrava prospettare, purtroppo quelle prospettive, negli anni successivi, sono state in parte disattese. Tutti possono constatare, infatti, l'irriducibile tensione fra un quadro istituzionale ispirato ai princìpi del più ampio autonomismo e una realtà ordinamentale restia ad adeguarvisi. Soprattutto nelle relazioni tra potere centrale e poteri locali, fra i diversi enti che compongono la Repubblica, si palesa ancora oggi l'esigenza di realizzare un'architettura costituzionale equilibrata e armonica, che assicuri finalmente all'ordinamento costituzionale italiano la coerenza della quale sembra privo.
Alla luce di queste considerazioni, appare in tutta la sua attualità e importanza il  passo che si sta compiendo con la cosiddetta "Carta delle autonomie", ove, in attuazione del principio di sussidiarietà,  sono ridefinite le funzioni amministrative degli enti locali e sono predisposti gli strumenti, quanto più chiari e flessibili, per la loro attuazione. Individuare e disciplinare le funzioni di Comuni e Province, favorendone l'esercizio associato; razionalizzare le modalità di esercizio delle funzioni stesse; incrementare l'efficienza e l'efficacia dell'azione di governo locale; ridurre i costi: sono obiettivi di assoluto rilievo. Quanto più il lavoro compiuto sarà coraggioso e lungimirante, tanto più si rifletterà in positivo sulla qualità di vita dei cittadini, accrescendo la loro volontà di partecipazione alla vita collettiva e rendendo più trasparente e fecondo il loro rapporto con le istituzioni, a tutti i livelli di governo.
Come già ho avuto occasione di affermare in altre sedi, l'approvazione della "Carta delle autonomie" appare strettamente  collegata all'attuazione e alla piena realizzazione del federalismo fiscale, ormai in fase di completamento con la predisposizione degli ultimi decreti legislativi che il Governo emanerà nei prossimi mesi. E' opinione diffusa nella riflessione economica e giuridica che l'introduzione del federalismo fiscale abbia in Italia rappresentato una svolta epocale, destinata a lasciare un segno profondo nell'organizzazione istituzionale del Paese.  Producendo una rivoluzione copernicana del sistema tributario, finora improntato a princìpi centralistici, il federalismo fiscale porterà alla crescita dell'efficienza del sistema economico e, nello stesso tempo, al controllo della spesa pubblica. Tale percorso virtuoso  potrà compiersi, però, solo se gli enti direttamente coinvolti (comuni e province) saranno strutturati secondo criteri omogenei,  ispirati alla massima razionalizzazione, sia per quanto concerne le funzioni di amministrazione attiva, sia per quanto riguarda il sistema dei controlli. La definizione delle funzioni fondamentali di province e comuni, che rappresentano gli enti istituzionali maggiormente coinvolti nel decentramento fiscale è, dunque, parte integrante di tale processo riformatore.
In altre parole, senza una definizione delle funzioni fondamentali degli enti locali, l'attuazione del federalismo fiscale potrebbe essere  compromessa, perché sarebbe priva degli strumenti istituzionali fondamentali che ne possano assicurare la piena realizzazione.
Già in sede di approvazione della legge delega, nonché durante l'esame parlamentare degli schemi di decreto legislativo, i Gruppi di opposizione hanno assunto sempre un atteggiamento leale e costruttivo. L'ampio dibattito in Commissione, le autorevoli riflessioni svolte durante le discussioni, le posizioni assunte, hanno fatto comprendere a tutti, fin da subito, che l'attuazione del federalismo fiscale rispondeva veramente all'esigenza condivisa di una riforma non più rinviabile.
Lo stesso spirito costruttivo di condivisione è stato assunto, da tutte le forze politiche, anche durante l'iter parlamentare,  ancora in corso, sulla   "Carta delle autonomie". La scelta che, in qualità di Presidente della Commissione affari costituzionali, ho compiuto in merito alla designazione dei relatori è ispirata proprio dalla convinzione che ogni riforma di struttura che riguardi lo Stato e la sua organizzazione debba essere quanto più possibile condivisa: nel momento in cui il legislatore si accinge a riorganizzare la Repubblica e le funzioni degli enti che la compongono, non si può procedere secondo logiche di schieramento. Sia il relatore Pastore sia il relatore Bianco hanno mostrato di condividere questi miei auspici. Desidero, in proposito, ricordare che la scorsa settimana si è appena concluso un proficuo lavoro preparatorio che ha coinvolto, oltre a me, i relatori e il Ministro Calderoli. All'esito di un confronto fecondo e costruttivo, è stato prodotto un testo condiviso che sarà presto esaminato dalla Commissione affari costituzionali.
Il processo riformatore in atto non può esaurirsi qui. Ancora lungo è il cammino che abbiamo davanti e complesso il lavoro che ci attende. Ritengo, infatti, che, senza una riforma costituzionale finalizzata alla piena realizzazione di uno Stato federale non sarà possibile definire un quadro istituzionale in grado di funzionare concretamente nei suoi snodi essenziali. Manca il più importante dei tasselli che compongono il mosaico delle riforme: lo Stato, appunto, l'unico - tra gli enti che costituiscono la Repubblica, ai sensi dell'articolo 114 della Costituzione - a non essersi adeguato al nuovo assetto federale.
Molte sono le soluzioni istituzionali prefigurate.
Fra tante, ritengo necessario che una delle due Camere rappresenti il luogo di composizione della conflittualità legislativa tra Stato ed enti locali, nella cornice di un pluralismo istituzionale, fondato sull'integrazione tra i processi politici locali e nazionale e in cui alla legge statale possa essere finalmente restituita la funzione di indirizzo e di coordinamento dei diversi centri di produzione normativa.
Non entro nel merito dell’articolazione di un nuovo bicameralismo, ma la creazione di una stanza di compensazione politico-istituzionale appare quanto più necessaria, se si pensa che i rapporti tra Stato e autonomie in Italia sono drammaticamente contrassegnati da un abnorme conflittualità, che impegna la Corte costituzionale in un difficile compito, volto a delimitare i ruoli reciproci in un intricato groviglio di materie e di competenze. E' un tipo di conflittualità non legata esclusivamente al riparto costituzionale delle attribuzioni. Essa ha cause di ben diversa natura, spesso di matrice squisitamente politica. Proprio per questo è una conflittualità che deve più opportunamente trovare una sua armonica composizione in una sede politica, ove la fisiologica tensione che caratterizza i sistemi di governo multilivello trovi armonica composizione. Diversamente, l'Italia sarebbe l'unico ordinamento federale privo di una sede istituzionale di raccordo tra le diverse istanze territoriali, con il rischio - cui ho già fatto cenno - di affidare tale ruolo esclusivamente alla giurisdizione.
Coerentemente a questo primo indirizzo di riforma, un ulteriore campo di  intervento del legislatore costituzionale dovrebbe essere quello di una più congrua definizione del riparto di competenze per materia tra Stato e Regioni. Soprattutto le evidenti lacune negli elenchi delle materie di legislazione esclusiva hanno determinato una tendenza espansiva delle competenze statali che mortifica le istanze autonomiste.
Come segnalato dalla Corte costituzionale, l'assenza di forme e strumenti di partecipazione e collaborazione delle autonomie ai procedimenti di formazione delle leggi statali ha anche prodotto disfunzioni, con l'esigenza di introdurre meccanismi compensativi volti a tutelare le Regioni dalla possibile tendenza dello Stato ad estendere, attraverso l'attrazione in sussidiarietà,  i propri poteri su materie diverse da quelle di legislazione esclusiva.
In assenza di un organismo istituzionale di raccordo e di composizione dei conflitti, pur senza un esplicito riconoscimento costituzionale, ha avuto una grande espansione il "sistema delle conferenze", unica sede di confronto e di negoziazione tra i diversi livelli territoriali, relativamente a tutte le principali funzioni statali, non solo amministrative, ma anche legislative. Certamente i pregi di questo meccanismo non possono non essere riconosciuti. Esso consente di immettere nel processo decisionale le indicazioni di Regioni, Province, Comuni, spingendo ciascuno di questi livelli territoriali a individuare una posizione comune al proprio interno, ricercando necessariamente compromessi e mediazioni tra le diverse aree del Paese. Eppure, un meccanismo di questo tipo presenta non pochi elementi di criticità. In primo luogo, la negoziazione in Conferenza avviene in forme sostanzialmente deboli per il profilo istituzionale e senza alcuna responsabilizzazione dei singoli soggetti istituzionali, che possono agevolmente discostarsi dagli impegni assunti in quella sede. Vige, peraltro, il principio “una Regione, un voto”, che tradisce il criterio dell’equilibrio di rappresentanza rispetto al territorio ed al numero dei suoi abitanti. A tale riguardo, considero particolarmente positiva la decisione assunta nell'ultimo Consiglio dei ministri del 9 giugno scorso: la presentazione di un disegno di legge che delega il Governo a razionalizzare l'organizzazione e il funzionamento delle Conferenze Stato-Regioni, Stato-Città e Unificata, prevedendo una sola sede di raccordo istituzionale, denominata "Conferenza della Repubblica". Tale soluzione appare, a mio avviso, idonea a far fronte alle esigenze di negoziazione e di mediazione politica con le autonomie territoriali, probabilmente preludendo - credo che questa sia l'intenzione dei proponenti - ad un'organica riforma costituzionale del bicameralismo, capace - come dicevo - di dare rilievo parlamentare alle autonomie territoriali.
Anche l'annunciata riforma fiscale costituisce un tassello fondamentale del processo riformatore. Sarebbe, infatti, del tutto incongruo pensare che il sistema fiscale nazionale, ispirato a logiche centralistiche, possa rimanere inalterato a fronte di un mutamento ordinamentale che, sia a livello costituzionale sia al livello della legislazione ordinaria, sta producendo una trasformazione dello Stato in senso compiutamente federale. Appare necessario, proprio in ossequio al principio di matrice liberale icasticamente sintetizzato nella formula no taxation without representation, realizzare una piena coincidenza tra "cosa amministrata" e "cosa tassata". Il passaggio da una finanza da trasferimento ad una finanza propria  appare  ineludibile, nel momento in cui gli enti locali acquisiscono sempre più competenze e funzioni. L'attribuzione di un potere e il riconoscimento della conseguente autonomia nel suo esercizio presuppone sempre una piena responsabilizzazione. E' per questa ragione che il sistema fiscale e il modello di tassazione devono necessariamente essere riformati.
Nello stesso tempo, anche i partiti politici dovranno adeguare struttura, organizzazione e funzioni, per poter ben rappresentare le istanze e i bisogni dei cittadini di uno Stato federale. Per poter sopravvivere, la forma partito deve essere capace di innescare al suo interno una trasformazione profonda. Già lo slittamento dalla democrazia partecipativa alla democrazia del leader  con investitura popolare diretta ha rappresentato un mutamento epocale nelle dinamiche della rappresentanza. Anche a fronte di questo progressivo processo di personalizzazione della politica e di crescita della dimensione rappresentativa delle leadership occorre, dunque, ripensare la forma partito. Proprio l'organizzazione federale dello Stato può offrire ai partiti politici l'occasione per definire in modo nuovo le loro funzioni, in particolare tenendo conto delle esigenze delle diverse realtà locali, i cui bisogni e le cui aspettative non potranno essere ceetamente le stesse da Bolzano a Messina.
In conclusione, credo che si possa affermare che siamo entrati, non sempre con la sufficiente consapevolezza, in una nuova era costituzionale, in cui il principio federalista è diventato uno dei pilastri della nostra Costituzione. Ma resta il difetto d’origine. Il federalismo, il regionalismo, il sistema delle autonomie territoriali sono irrobustite sempre come se si trattasse di accrescere il novero delle loro competenze. Ma si omette di considerare le ripercussioni di una scelta a favore delle autonomie territoriali sulla struttura costituzionale dello Stato. Eppure l’esperienza comparata dimostra che gli Stati federali conoscono forme crescenti di integrazione, di cooperazione, di collaborazione tra lo Stato e le altre unità politiche territoriali. Oggi, poi questa esigenza diventa imprescindibile di fronte alle sfide epocali lanciate dalle trasformazioni dell’economia e dalla crisi economica e finanziaria. Per salvare l’euro ed il benessere di noi europei, delle generazioni attuali e di quelle che verranno, occorre risanare i bilanci pubblici, stimolare i comportamenti virtuosi, e quindi chiedere sacrifici. Proprio la crisi rilancia e rende non più rinviabile la questione dell’inserimento più stabile, adeguato ed efficiente degli enti locali nei processi decisionali statali.
Decidere come tutto ciò debba articolarsi è compito della politica. Io mi auguro, di tutta la buona politica, quella che su questi temi pensa di poter trovare forme di collaborazione e di compromesso alto, come fecero i costituenti oltre sessanta anni fa.
 

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Giovedì, 13 Luglio, 2017 - 12:27