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Idee per il cambiamento delle amministrazioni pubbliche. Note sulla riedizione di “Stato modesto, Stato moderno” di Michel Crozier*

Creato il:  7 Settembre 2010

di Domenico Lipari**

Se un classico è, secondo la felice formulazione di Italo Calvino, «ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l'attualità più incompatibile fa da padrona» (I. Calvino, Italiani, vi esorto ai classici, in «L'espresso», 28 giugno 1981, p. 68), Stato modesto, Stato moderno di Michel Crozier è effettivamente un classico e, bisogna aggiungere, tale rimarrà nei suoi contenuti essenziali fino a quando dovremo misurarci ancora con molte delle questioni – tanto vitali quanto irrisolte – di riforma dello Stato affrontate nel libro.

La pubblicazione in Italia presso Edizioni Lavoro di Stato modesto di Crozier è del 1988. Il tempo passato da allora, e sono più di venti anni, ci fa sembrare quella data del secolo scorso ancora più lontana da oggi e ciò non solo in considerazione del «tempo spazializzato» effettivamente trascorso, ma anche e soprattutto in considerazione del fatto che nel nostro mondo contemporaneo il fluire e susseguirsi vorticoso degli eventi, delle innovazioni e dei cambiamenti tende a superare ogni cosa e a renderla rapidamente obsoleta.  Ma non è così per tutto. In particolare non è così per alcune realtà istituzionali, come lo Stato e la pubblica amministrazione che ne è l’articolazione operativa più importante, che sembrano dotate della capacità di neutralizzare ogni prospettiva che tenda a modificarne i tratti di fondo. Ed è proprio questa inossidabile capacità dello Stato e della pubblica amministrazione di resistere al cambiamento, unitamente allo spessore delle analisi e delle proposte di Crozier, a rendere Stato modesto un libro che ancora oggi merita tutta la nostra attenzione nonostante sia passato così tanto tempo dalla sua prima uscita. In effetti si tratta di un’opera che conserva intatto il suo valore proprio per la sua capacità –  tanto più sorprendente quanto più lontano nel tempo è il momento in cui le analisi sono state proposte per la prima volta all’attenzione dei lettori – di cogliere problemi (molti dei quali sono ancora aperti) e di suggerire ipotesi di soluzione che spiccano per il loro contenuto innovativo e anticipatorio.

Concepito e scritto nel 1987 avendo come retroterra intellettuale una riflessione solida ed originale sulla burocrazia e sul potere, il libro di Crozier si propone di stigmatizzare, con un’analisi tanto brillante quanto serrata e convincente, l’arroganza dello Stato francese e dei suoi apparati e l’indifferenza con cui essi guardano i cambiamenti profondi dell’economia e della società. Uno Stato ed una pubblica amministrazione immobili ed autoreferenti che, nella loro incapacità di auto-trasformarsi, avrebbero la pretesa di guidare i processi di modernizzazione della società. Il limite più grave dello Stato burocratico è, secondo Crozier, proprio quel dirigismo centralistico e tecnocratico che ritiene di poter governare e regolamentare la realtà complessa delle società contemporanee con modalità valide per le vecchie società industriali, ma del tutto inadeguate in un mondo ormai profondamente cambiato. Ciò che sarebbe utile, nelle mutate condizioni della società post-industriale, è uno Stato modesto, uno Stato cioè che sappia ascoltare la società e mettersi al suo servizio.

Il successo del libro di Crozier, non solo tra studiosi e addetti ai lavori, ma anche presso il grande pubblico,  ha rapidamente varcato i confini francesi (è stato quasi immediatamente tradotto in diverse lingue in Europa e nel mondo) inserendosi con autorevolezza nella più ampia discussione – piuttosto vivace a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, mentre ci si addentrava a grandi passi nei processi di globalizzazione della società – sul ruolo dello Stato nella società e nell’economia e sulla riforma della pubblica amministrazione.

Questa vasta risonanza dei temi del libro è in effetti il riconoscimento del fatto che l’analisi e le proposte di Crozier travalicano largamente la lettura situazionale e la diagnosi del caso francese per mostrare come i problemi del cambiamento degli apparati pubblici costituiscano un tema centrale per tutti i paesi del mondo occidentale. E’ lo stesso Crozier a sottolineare questa dimensione per così dire «transnazionale» del problema del cambiamento dello Stato proprio nella Prefazione all’edizione italiana: «… ho scritto questo libro sforzandomi di superare le certezze tipicamente francesi … perché mi sembra che i problemi, in Italia, in Francia e in tutti i paesi occidentali, siano ormai gli stessi, anche se le soluzioni che ad essi possiamo dare, (e che dipendono dalla nostra cultura, dalla nostra storia e dalle capacità che abbiamo sviluppato), sono e devono rimanere diverse» (Stato modesto, Stato moderno, Roma, Edizioni Lavoro, 1988, p. 19). Ed aggiunge per mostrare quanto sia importante ai fini dell’apprendimento istituzionale la lettura comparativa di (e il confronto tra) esperienze diverse: «… sono convinto … che tutti noi abbiamo un urgente bisogno di studiare i problemi delle altre società per scoprire differenti modalità di soluzione degli stessi problemi, per trarre vantaggio dai successi e dai fallimenti degli altri, per elaborare così nuovi tipi di ragionamento» (Ivi).

 

Accertato dunque il valore del contributo di Crozier dal punto di vista della sua capacità di travalicare l’analisi del caso francese per proiettarsi nella prospettiva della comparazione tra problemi ed esperienze internazionali (in questa esperienza lo stesso Crozier, proprio in quegli anni, si è brillantemente cimentato: cfr. Comment réformer l'Etat? Trois pays, trois statégies: Suède, Japon, Etats-Unis, Paris, La documentation française, 1988), occorre chiedersi quali sono le ragioni per le quali, oggi, ad oltre venti anni dalla sua prima edizione, si decide di ripubblicare in italiano Stato modesto. Proverò qui di seguito a dare qualche risposta.

 

Non c’è dubbio sul fatto che la semplice scelta di ristampare un classico (inteso nel senso calviniano di ciò che persiste al di là dell’«incompatibilmente attuale») di per sé rappresenti una ragione più che plausibile per giustificare la scelta editoriale di riproporre il volume al pubblico italiano. E da questo punto di vista Stato modesto è davvero un classico soprattutto perché la costruzione intellettuale su cui si basa mantiene inalterato il suo spessore scientifico e rappresenta, al tempo stesso, un caso esemplare di scrittura brillante e convincente, di finezza analitica e di ragionamento da cui emerge una rara capacità di individuare e descrivere cosa è la pubblica amministrazione, cosa le si chiede di fare, quali sono i nodi problematici che ne caratterizzano le difficoltà davanti all’esigenza improrogabile di promuoverne il cambiamento.

Ma le ragioni «di contenuto» che rendono attuale il libro, sono legate al fatto che alcuni dei temi che propone, riferiti in particolare alla pubblica amministrazione centrale italiana, sono straordinariamente attuali (ma su questo piano, accanto ai meriti dell’Autore, bisogna evidenziare la grande capacità  degli apparati pubblici di resistere al cambiamento e la correlata difficoltà delle élites politiche di riformare l’amministrazione). I temi rilevanti che conservano un elevato grado di interesse e di attualità sono diversi, ma tra essi alcuni assumono un risalto speciale e per questo meritano qualche considerazione che qui cercherò di svolgere per grandi linee (rinviando al piacere della lettura di Crozier che li affronta  con una ricchezza di argomenti ed una capacità persuasiva di grande efficacia). Mi riferisco in particolare a tre dimensioni tra loro fortemente intrecciate e cioè:

- all’idea della centralità, nel processo amministrativo, del «cittadino-utente»,

- all’introduzione nell’azione amministrativa della cultura della valutazione;

- ad una nuova attenzione per la formazione come «veicolo» di cura delle risorse e di investimento in conoscenza.

Vediamole molto rapidamente una per una.

 

L’idea di restituire al cittadino la centralità che gli spetta in quanto destinatario ultimo dell’azione pubblica è mutuata dalla cultura della qualità e dei servizi (un terreno sul quale Crozier si è felicemente cimentato insieme a Richard Normann in un volume del 1982 pubblicato in Italia nel 1990 con un mio saggio introduttivo: M. Crozier, R. Normann, L’innovazione nei servizi, Roma, Edizioni Lavoro, 1990), rappresenta un considerevole contributo al dibattito sul cambiamento delle pubbliche amministrazioni  e costituisce, ancora oggi, una sfida e al tempo stesso un nodo irrisolto della cultura organizzativa degli apparati pubblici italiani (di quelli centrali in particolare). Ma cosa significa esattamente assumere, nel lavoro pubblico la cultura dei servizi? Significa innanzitutto cogliere l’essenza del «prodotto» del lavoro pubblico che, a differenza dei beni tradizionali, esibisce un tratto particolare ed irriducibile: è un bene intangibile. Questa caratteristica ha delle implicazioni di una certa importanza. In primo luogo, l’intangibilità del bene-servizio rende cruciale la relazione tra l’erogatore e il fruitore poiché nella loro interazione si determina la realizzazione del servizio (da notare come in questa relazione il fruitore abbia un ruolo decisivo sia perché il servizio prende forma a partire da una sua esigenza, sia perché spesso partecipa direttamente all’evento, sia infine perché è il destinatario ultimo dell’azione); da questo punto di vista, la «produzione» del servizio trova nell’evento compiuto la sua unicità e al tempo stesso l’apprezzamento del suo valore che si esprime sempre nei termini della valutazione da parte del fruitore. In secondo luogo, e come conseguenza della crucialità della relazione tra erogatore e fruitore, emerge il tema della qualità del servizio che, secondo questa prospettiva, non ha nulla in comune con caratteristiche misurabili o quantitativamente apprezzabili come avviene per i beni materiali: essa ha connotazioni in nessun modo definibili a priori  poiché è interamente racchiusa nel tipo di rapporto che si stabilisce tra l’erogatore e il fruitore. In terzo luogo, nella stessa relazione può essere individuato il nucleo centrale dell’innovazione nella misura in cui dal bisogno del cittadino/utente emerge un problema nuovo e nella misura in cui nella relazione con lui l’attore pubblico chiamato a rispondere a quel bisogno trova una soluzione innovativa e soddisfacente per il cittadino (e al tempo stesso «capitalizzabile» in termino di apprendimento istituzionale ed organizzativo). Le conseguenze di questo ragionamento sulla centralità del cittadino, sulla qualità dei servizi e sulla soddisfazione del cittadino/utente, mettono in evidenza la necessità di alcuni cambiamenti che investono la cultura del lavoro amministrativo e riguardano (i) la necessità di un approccio gestionale orientato ai risultati piuttosto che agli adempimenti formali (con conseguenze importanti sul versante dello sviluppo di competenze professionali appropriate); (ii) una diversa organizzazione del lavoro fondata su una migliore qualità delle prestazioni, sull’efficienza e sull’efficacia, sull’economicità e sulla trasparenza con chiaro orientamento ad una più ampia soddisfazione del cittadino utente. In definitiva, l’inserimento del punto di vista del cittadino nella logica della valutazione delle prestazioni degli operatori – se concepita nei termini di una custumer satisfaction non ridotta ad un’operazione «sondaggistica» superficiale e manipolatoria buona solo per effimere operazioni mediatiche, ma al contrario intesa come ricerca sociale applicata ed orientata all’ascolto - costituisce il passaggio cruciale ai fini dell’apertura dell’amministrazione e della sua fuoriuscita dal ghetto dell’autoreferenzialità.

 

L’introduzione nell’azione amministrativa, e in particolare negli snodi più importanti del processo decisionale, della cultura della valutazione equivale ad una riforma dirompente delle pratiche in uso, poichè l’attivazione di un circuito virtuoso decisione-azione-valutazione-decisione è accreditata della capacità di concorrere in misura decisiva al superamento delle logiche tecnocratiche. La valutazione, infatti, costituisce la premessa di ogni decisione dotata di senso in quanto contribuisce a fornire i necessari elementi di conoscenza senza i quali le decisioni  rischiano di essere esercizi di improvvisazione approssimativi e superficiali. Essa rappresenta, inoltre, un indispensabile dispositivo intellettuale che – attraverso appropriate tecniche di monitoraggio – è in grado di accompagnare i processi di implementation delle decisioni incorporate nei programmi d’azione correggendone gli indirizzi se ritenuto necessario.  La valutazione, infine, attribuisce senso all’azione compiuta e ai suoi «risultati» (valorizzando quelli positivi e segnalando quelli negativi come altrettante fonti di apprendimento) e restituisce al decisore quei dati che gli permetteranno di elaborare i successivi programmi avendo come riferimento una base informativa tecnicamente fondata. Sul terreno della valutazione (e su quello ad essa legato della preparazione delle decisioni), la lezione crozieriana, oltre che attualissima, è assolutamente esemplare e ricca di insegnamenti utili per un cambiamento organizzativo e culturale delle pubbliche amministrazioni che voglia essere davvero efficace. (Da notare en passant che il capitolo IX di Stato modesto, dedicato appunto alla valutazione, costituisce un contributo assolutamente originale essendo stato tra l’altro elaborato in un momento in cui gli studi sull’analisi e sulla valutazione delle politiche pubbliche, in Europa come negli USA, erano pochi e comunque in una fase ancora pionieristica.) Su questo terreno – che ha cominciato ad essere esplorato anche nella pubblica amministrazione italiana a partire dalla seconda metà degli anni Novanta del ‘900, quando la compartecipazione di apparati pubblici centrali e regionali all’elaborazione e al coordinamento delle politiche comunitarie ha fatto emergere, come vincolo in larga misura imposto dalle procedure dell’Unione Europea, l’esigenza della valutazione (ex ante, in itinere ed ex post) dei programmi – anche nel nostro Paese qualcosa si muove in termini di sensibilità e di consapevolezza che si va manifestando tra agli apparati pubblici, ma ancora è troppo poco per poter parlare di un cambiamento rilevante. Occorre, nella prospettiva suggerita da Crozier, un intenso cambiamento culturale: occorre, cioè, cambiare «stile di ragionamento», svincolandolo dalle eccessive rigidità della logica quantitativa e dalle pastoie del formalismo giuridico e procedurale per assumere un’ottica più vicina alla conoscenza approfondita dei contesti d’azione e dei loro problemi. Solo così la valutazione degli effetti dell’azione pubblica può consentire ad ogni decisione, ad ogni programma di acquisire la concretezza che può derivare solo dall’adesione ai bisogni ed ai problemi dei cittadini che, in definitiva, sono gli unici destinatari e referenti dell’amministrazione.

 

Quanto alla prospettiva di collocare la formazione al centro delle politiche di sviluppo e di cambiamento delle organizzazioni pubbliche, il discorso di Crozier si lega al suo ragionamento sui tratti di fondo delle società post-industriale: prevalenza dell’«immateriale», centralità economica dei servizi e soprattutto crucialità dei processi di generazione, acquisizione, trasformazione e distribuzione delle conoscenze. Emerge a tutto tondo, la rilevanza, per le organizzazioni maggiormente esposte alla competizione internazionale, della capacità di innovare e di trasformare. E poiché l'innovazione è in larga misura legata alla possibilità di generare nuova conoscenza a partire dall'esperienza accumulata nelle pratiche lavorative consolidate, risulta evidente quanto sia prioritaria l’attenzione alla conoscenza, al cosiddetto «capitale intellettuale», alla risorsa umana, all'investimento in ricerca e in saperi innovativi. Ciò che si impone come imperativo di tutti è – nella prospettiva di Crozier - «il dovere della conoscenza e dell’apprendimento» che passa attraverso il rafforzamento della qualità dell’azione formativa e del suo ancoraggio ai problemi concreti che le organizzazioni sono chiamate costantemente ad affrontare e risolvere. E’ questo nesso inscindibile con i processi organizzativi, ovvero con i soggetti che ne sono i protagonisti, che conferisce alla formazione il suo valore   strategico di supporto alle politiche organizzative. Come sottolinea Crozier in un suo scritto successivo a Stato modesto, «Non si potrà trattare il problema della formazione in una società che è già potenzialmente e radicalmente nuova continuando con attività di formazione la cui filosofia è ancora profondamente legata  alla società industriale standardizzata e avviata a un rapido declino. Ormai non si tratta più soltanto di formare persone a dei lavori dal contenuto più intellettuale e più creativo. Bisogna considerare il problema in termini molto più ampi. Occorre perciò adattare la formazione ad una società i cui sistemi di potere e di relazioni, regole di comportamento, mezzi di comunicazione, ed il cambiamento, divengono estremamente diversi. […] Ormai bisogna considerare la formazione come la condizione che permette agli individui di sviluppare capacità atte non solo a risolvere i problemi, ma a porli, non soltanto ad adattarsi a ruoli prestabiliti e a quelli nuovi proposti dalla trasformazione delle attività umane, ma a suddividerli, ad orientarli e al limite a crearli» (Formazione, intellettualizzazione, creazione del lavoro, in D. De Masi (a cura di), «Verso la formazione post-industriale», Milano, Angeli, 1993, pp. 115-116).

Il cambiamento di prospettiva delineato da Crozier, ancorché necessario, non è semplice né scontato, specie se si guarda al panorama della formazione nelle pubbliche amministrazioni italiane a proposito del quale sono necessarie risposte forti e coraggiose che puntino ad  una formazione che sappia superare (e radicalmente) i limiti che ne caratterizzano la più diffusa pratica tradizionale, la quale, se si escludono le rare e significative eccezioni che hanno fortunatamente cominciato ad affermarsi, è emblematicamente contrassegnata da forme acute di scolasticismo sul piano delle metodologie d’azione e di giuridicismo su quello dei contenuti. A questo livello, l’innovazione dovrebbe incidere in profondità ed investire direttamente, sul versante metodologico, sia l’azione progettuale sia gli stili di realizzazione. Quanto ai contenuti delle attività, bisognerebbe introdurre nell’asse contenutistico della formazione dei quadri pubblici, specie di quelli che ricoprono ruoli dirigenziali, alcune aree specifiche di saperi tradizionalmente escluse dalle attività didattiche come, ad esempio, l’implementation e la valutazione delle politiche, la cultura dei servizi, il management delle risorse umane, il controllo di gestione. Occorre inoltre favorire lo sviluppo di una cultura dell’azione formativa che sia in grado di assumere e valorizzare alcuni tra i più recenti contributi della ricerca in campo organizzativo. E bisogna segnalare, ancora, l’utilità del recupero della nozione di «competenza professionale» con tutte le implicazioni che da tale recupero potrebbero derivare sul versante dell’ancoraggio concreto della pratica formativa ai contesti organizzativi: poiché infatti la nozione di competenza si riferisce direttamente a comportamenti lavorativi/organizzativi osservabili (sono in effetti saperi di base ridefiniti e reintrepretati contestualmente dai soggetti che ne detengono i contenuti), essa costituisce un rilevante punto di snodo che rende feconda e concretamente praticabile la relazione tra azione organizzativa e processi formativi. Sulle competenze (ed a partire da esse, cioè dalla loro promozione per via didattica), la formazione può agire a crescenti gradi di complessità, impegno ed investimento nella consapevolezza del fatto che ogni intervento formativo presuppone almeno un minimo di esplorazione dell’organizzazione.

La relazione tra processi organizzativi e formazione ha inoltre una sua dinamica che riflette i cambiamenti, talora impercettibili, talora discontinui e radicali, ai quali, sotto l’influenza di una molteplicità di fattori, sono interessati tanto il «mondo» (cioè le culture, gli stili e le pratiche) delle organizzazioni, quanto il «mondo» della formazione. Pur essendo, in questa relazione, largamente reciproca l’influenza dei due «mondi» (il modo di organizzare determina in una certa misura il modo di essere e di agire della formazione poiché quest’ultima trova nel primo alimentazione e perfino la sua stessa raison d’être; ma, al tempo stesso, anche l’azione formativa, in quanto capace di influenzare le persone incide direttamente o indirettamente sul modo di funzionare dell’organizzazione), l’approdo ad una visione «integrata» è un processo non certo facile né scontato: si passa infatti, nel tempo, da prospettive (teoriche e pratiche) nettamente separate, a configurazioni interpretative in cui emerge una crescente sensibilità sulla necessità di significative connessioni tra le due dimensioni, per giungere al progressivo consolidamento dell’idea secondo cui l’azione formativa (con tutte le specificità dei suoi dispositivi tecnici) è parte integrante delle pratiche organizzative delle quali talora anticipa rilevanti fenomeni innovativi.

I tre ambiti tematici del discorso di Crozier che qui ho sinteticamente ripreso per mostrare l’attualità di Stato modesto e per segnalare come essi siano nodi problematici vitali (oltre che largamente irrisolti) che condizionano negativamente il «buon funzionamento» della pubblica amministrazione italiana, rappresentano anche alcuni tra i punti di passaggio obbligati per ogni strategia di cambiamento organizzativo che punti a conseguire un minimo di successo. In effetti il cambiamento organizzativo è una sfida e al tempo stesso un rischio: per affrontarli con qualche chance di riuscita, occorre un’idea di cambiamento non solo realistica (nel senso della sua capacità di aderire alle condizioni specifiche dei contesti locali d’azione e della sua capacità di adottare una strategia «gradualistica» fatta di piccoli passi e di sperimentazioni diluite in archi temporali piuttosto ampi), ma anche di tipo partecipativo – ed intendo «partecipativo» non nel senso di «assimilazione» ad un disegno perecostituito, ma nel senso di implicazione, di coinvolgimento attivo e critico degli attori interessati entro una cornice nella quale i processi non sono mai lineari e scontati, né aderenti ad una visione preordinata, ma seguono traiettorie da accompagnare con molta attenzione perché comportano sempre, insieme al consenso e alla condivisione, dinamiche conflittuali, resistenze e dissensi che comunque devono essere in qualche modo «addomesticati» (è bene tener presente il fatto che, in fondo, la pratica dell’organizzare altro non è che la risposta necessaria  problema di far cooperare le persone in condizioni intrinsecamente competitive e conflittuali).

Tra i tanti possibili tipi di cambiamento organizzativo ai quali vorrei almeno accennare, tre sono i più conosciuti anche se non si verificano con la medesima frequenza nella gran parte delle esperienze note.

Il primo è il cambiamento per decreto: è il più frequente e noto anche se, tutto sommato, è il meno efficace: le sue linee sono octryées, ovvero, per dirla nei termini efficacissimi di una nota formulazione gergale, sono «calate dall’alto».  Ha carattere autoritario e burocratico. «Funziona» sulla carta, ma, di fatto, funziona solo se gli attori si adeguano alle misure adottate. Parafrasando il titolo di un fortunato saggio di Crozier riferito al cambiamento della società (dunque ad una dimensione macro-sistemica), si può dire che il cambiamento per decreto, anche in contesti dimensionalmente limitati, non può aver successo per la semplicissima ragione che «on ne change pas la société par decret».

Il secondo, piuttosto raro, è il cambiamento per choc  che si verifica in seguito ad eventi imprevisti, improvvisi e traumatici che investono – per lo più provenendo dall’esterno – l’organizzazione. In genere è efficace perché l’evento che interrompe traumaticamente un sistema di routine organizzative, nella misura in cui genera paura diffusa, disorientamento generale e bisogno di senso, riesce ad aggregare facilmente il consenso di (quasi) tutti gli attori attorno ad una strategia di cambiamento, a prescindere dalla sua qualità. La metafora magistrale di Prova d’orchestra di Federico Fellini del 1979 descrive in modo molto efficace questo tipo di cambiamento: l’organizzazione/orchestra diventata anarchica, e dunque impossibile da governare, si trasforma in docile strumento, consegnandosi al direttore (prima esautorato e deriso) in seguito all’irruzione, fragorosa e spaventosa, nella sala di prova, di una gigantesca sfera d’acciaio che sfonda una parete seminando il terrore tra gli orchestrali.

Il terzo tipo di cambiamento è quello pilotato. Come quello «per choc», è abbastanza raro. E’ sempre accompagnato da una decisione di vertice (necessaria perché da qualche parte e soprattutto dall’iniziativa di qualcuno bisogna pur partire) che comunque è caratterizzata dal fatto che non è definitiva, né imposta, ma, al contrario, assume i tratti di un processo da implementare, un processo, nel migliore dei casi, da co-costruire in un’ottica in cui protagonisti del costrutto di senso organizzativo sono anche gli attori implicati nello svolgimento delle pratiche di lavoro.

E’ evidente che una strategia ragionevole di cambiamento se non vuole finire tra le secche del cambiamento apparente (o semplicemente formale e di facciata) debba per così dire evitare le logiche autoritarie del cambiamento imposto dall’alto per aderire a quelle graduali, processuali e partecipative del cambiamento «pilotato» (essendo evidentemente quello «per choc» fuori dalle disponibilità decisionali di chiunque). Questa prospettiva – e qui ritorna uno dei temi cruciali della riflessione di Crozier – non può prescindere dalla formazione: come ha sostenuto Erhard Friedberg, allievo prima e collega poi di Crozier, qualsiasi cambiamento esige che i membri dell’organizzazione accettino di giocare un gioco più aperto. La formazione, quindi, può essere l’occasione per fornire agli attori gli atouts e le capacità che permetteranno loro di impegnarsi (E. Friedberg, L’analisi sociologica delle organizzazioni, Roma, Formez, 1986, pp. 124-125). Ma non può prescindere da un processo di intensificazione della leadership. Si tratta di un processo che deve però avvenire in condizioni di restituzione al concetto di leadership del suo fondamento etimologico di capacità di conduzione, avendo preso le dovute distanze dai troppo diffusi significati associati ad una idea (burocratica, militaresca e autoritaria) di comando. La leadership è una competenza emergente che si afferma in una dinamica relazionale e costruita entro la quale essa e il leader sono l’esito di complessi scambi tra gli attori di un determinato campo organizzativo fondati, da un lato, sulla fiducia reciproca con riferimento agli impegni assunti e, dall’altro, su negoziazioni (che il più delle volte sono implicite e rinnovano continuamente i loro termini costitutivi) tra il leader e quanti ne riconoscono il ruolo e le capacità. La necessaria riflessione sulla leaedership associata ai processi di cambiamento «…è inseparabile – sottolinea Crozier – da quella sul metodo e, in un certo senso, la riflessione sul metodo e sull’apprendimento di nuovi tipi di ragionamento coincide con l’apprendimento di un nuovo tipo di leadership» (Stato modesto, op. cit., p. 216).

A queste condizioni - che implicano (i) restituzione all’idea di leadership dei suoi significati più genuini, (ii) investimenti importanti in formazione, (iii) rivalutazione del «saper fare bene il proprio mestiere» attraverso il recupero della competenza rispetto al valore dello status, del grado, della posizione nell’organigramma e (iv) disegni di cambiamento organizzativo chiari, duttili ed aderenti ai contesti d’azione - è possibile trasformare la pubblica amministrazione in una prospettiva che renda la sua azione rispondente agli interessi e ai bisogni dei cittadini e che, al tempo stesso, restituisca dignità e senso al lavoro pubblico. 

 

L’articolo qui proposto, riprende e sviluppa i contenuti del mio nuovo saggio introduttivo alla riedizione del volume di Michel Crozier, Stato modesto, Stato moderno, Edizioni Lavoro, Roma, 2010, pp. VII-XIX.

**   Domenico Lipari  è docente presso la Facoltà di Sociologia dell’Università “La Sapienza” di Roma e direttore scientifico del webmagazine “Formazione e cambiamento” È autore di vari saggi e volumi, tra cui Progettazione e valutazione nei processi formativi(Edizioni Lavoro, Roma 20093); Logiche di azione formativa nelle organizzazioni (Guerini e Associati, Milano 20102); L’approccio-comunità (Formez, Roma 2004); Dinamiche di vertice. Frammenti di un discorso organizzativo (Guerini e Associati, Milano, 2007).

 

 

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Giovedì, 13 Luglio, 2017 - 12:27