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Racconti di vita professionale. L’atteggiamento dei formatori nei confronti delle competenze emotive

Creato il:  15 Maggio 2012

di Celeste Papuli
 
 
Qual è l’atteggiamento del formatore nei confronti delle competenze emotive all’interno dei processi formativi? In che modo e attraverso quali occasioni di formazione le ha apprese e le mette in pratica? Qual è e come è cambiato il significato assegnato a tali competenze all’interno della storia professionale? Come osservare le pratiche quotidiane che costituiscono, in modo continuo nel tempo, la trama della traiettoria professionale?
È da queste domande che è partita una ricerca sociale di tipo biografico di carattere esplorativo che questo contributo tenterà di raccontare perché è proprio di racconti che essa si compone. L’uso di materiale biografico nelle scienze sociali, pur vantando origini lontane[1], ha spesso occupato una posizione minoritaria all’interno di modelli di ricerca basati sull’utilizzo di procedure di raccolta e di analisi dei dati che hanno come obiettivo principale la quantificazione e la generalizzazione dei risultati. A cominciare dagli ultimi vent’anni del secolo scorso, l’indagine biografica, soprattutto attraverso l’opera del sociologo francese Daniel Bertaux[2], ha rivendicato una sua autonomia nel modo di fare e di intendere la ricerca sociale.
In questo senso la ricerca può essere definita una ricerca biografica perché l’oggetto di studio e la prospettiva di osservazione del ricercatore sembravano adattarsi meglio a una logica dell’indagine che non fosse quella ipotetico deduttiva; infatti l’interrogativo di partenza era talmente vago e generico da non potersi prestare immediatamente ad una concettualizzazione in grado di produrre ipotesi. Durante l’esplorazione teorica quello che è apparso chiaro è stata l’esigenza di adottare un’analisi di tipo longitudinale che potesse dar conto della profondità temporale dei percorsi individuali.
Il modo principale con il quale presentiamo noi stessi agli altri sono le storie che raccontiamo, soprattutto se quelle storie ci riguardano. Raccontando di noi, attribuiamo un senso al nostro agire e lo facciamo all’interno di canoni e del sistema culturale di cui siamo parte. Mentre narriamo ci presentiamo cercando di dare un’immagine plausibile ai nostri interlocutori: narrare è un’azione sociale. L’altro polo della narrazione è la ricerca di sé[3]; oltre a presentare l’immagine di un’identità definita, mentre raccontiamo stiamo anche sperimentando l’occasione di ricerca di una nuova immagine di noi stessi; come scrive Melucci[4] “narrare significa mettere dei confini e superarli”.
Il costrutto dell’identità narrativa è caratterizzato in particolare da due dimensioni che sono sembrate rispondere alle esigenze di ricerca: quella temporale e quella riflessiva.
Come afferma Pellegrini[5], «le storie scandiscono il passaggio di chi si racconta attraverso il tempo connettendo chi siamo oggi con chi eravamo ieri e con chi saremo domani. La riflessività della narrazione è consentita dalla separazione tra narratore e protagonista della storia: chi narra può osservare, correggere, ricostruire, giustificare il sé che sta creando e, facendolo, modifica il presente guardando al passato o viceversa».
È inoltre importante spiegare perché, come si legge nel titolo di questo lavoro, si è scelto di parlare di racconti e non di storie di vita professionale. Il riferimento è ancora un volta Bertaux che, all’inizio del suo saggio, ricorda che l’espressione “récits de vie” fu introdotta in Francia sul finire degli anni Settanta mentre prima di allora era stata prevalentemente utilizzata soltanto la dizione “storie di vita”, traduzione dell’americano “life histories”. Tuttavia il termine history non consente di distinguere tra la storia vissuta dal soggetto ed il suo racconto mentre questa differenza invece è molto importante nei “récits de vie”. Secondo il sociologo francese, nelle scienze sociali il racconto di vita è «una forma particolare d’intervista, l’intervista narrativa, nel corso della quale un ricercatore […] domanda ad una persona di raccontargli tutta o una parte della sua esperienza vissuta»[6]. Il racconto di vita è meglio specificato come “racconto di pratiche” e la storia vissuta dal soggetto è da intendersi rilevante solo per la parte in cui mette in luce azioni individuali di rilevanza sociale, cioè “azioni in situazione”.
Il metodo autobiografico, applicato alla vita professionale – ma il confine tra la vita professionale e la vita personale di un individuo non è poi così ben definito – consente di enucleare dalla narrazione autobiografica raccolta oralmente dal ricercatore, quanto ha più segnato, nel lavoro e nelle relazioni professionali, l’attore narrante, generando svolte e cambiamenti che lo hanno condotto ad apprendere maggiormente rispetto alla situazione cognitiva e comportamentale precedente. Inoltre  il metodo biografico consente di raccogliere informazioni sulle motivazioni dell’ intervistato, sulla immagine che ha di sé, sulle origini dei suoi atteggiamenti che, insieme a quelle relative alle sue conoscenze ed esperienze professionali, forniscono un quadro dello stato delle sue competenze personali. Essendo un metodo che favorisce l’auto-consapevolezza, fa emergere le conoscenze tacite o implicite e rende possibile l’ulteriore sviluppo delle proprie competenze; l’approccio biografico richiede un’adesione consapevole ed attiva. Si tratta di essere disposti a raccontare la propria storia, a ripercorrere episodi piacevoli e spiacevoli del proprio passato e presente professionale, a riconoscere le proprie qualità positive, ma anche quelle negative; in altri termini, si tratta di dare, attraverso il racconto di sé, un senso al proprio percorso professionale.
Per quanto riguarda l’impianto delle interviste la prospettiva biografica attribuisce alla parola degli intervistati (che di fatto sono narratori) una funzione diversa: «oltre a fornire informazioni, l’intervistato è considerato come un attore sociale che narrando la propria storia può consegnare al ricercatore la visione del suo mondo sociale ossia del mondo secondo la sua esperienza»[7].
Il ruolo della traccia nella progettazione di un’intervista biografica è fondamentale per almeno due motivi. Intanto la presenza di un impianto teorico che la informa e la struttura è ciò che distingue questa intervista, destinata alla ricerca sociale, da qualsiasi altra conversazione in un ambito qualsiasi della vita quotidiana. In secondo luogo, è nella traccia dell’intervista che si incontrano le categorie cognitive dell’intervistato da un lato e del ricercatore dall’altro, in una sorta di intreccio che costituisce lo spazio all’interno del quale si gioca l’esito esplorativo della relazione di intervista[8]. Le dimensioni di cui la traccia d’intervista si compone, infatti, riguardano il contesto spazio-temporale, la sensibilità teorica del ricercatore e il mondo di senso dell’intervistato.
 A questo proposito, un’altra caratteristica di questo tipo di traccia, come afferma sempre Pellegrini, «[…]è la flessibilità: il mondo di senso dell’intervistato può intervenire e modificare l’orientamento teorico del ricercatore che, sulla base di queste contaminazioni, può correggere il tiro e modificare la traccia per le interviste successive rivedendo il suo impianto teorico di partenza»[9]. Bisogna sempre tener presente che il racconto si produce attraverso una traccia che non entra nel setting d’intervista ma serve come promemoria del ricercatore che ha fissato in essa le dimensioni che ritiene più rilevanti.
All’interno della dimensione teorica si ritrova l’atteggiamento individuale nei confronti della competenza emotiva in quanto dimensione centrale dell’ interesse di partenza[10].
Altro concetto che è andato a informare la traccia è stato quello di “rappresentazione sociale”[11]  in quanto, al di là dell’atteggiamento individuale, si è pensato fosse interessante anche capire (dal punto di vista dell’attore) l’immagine socialmente e collettivamente condivisa della professione del formatore. Con l’autorappresentazione si è provato a ricostruire il punto di vista dell’attore nei confronti delle competenze emotive e di come queste siano in relazione con la sua professione di formatore.
Per quanto riguarda l’analisi del materiale empirico, all’interno di una ricerca biografica, la natura discorsiva del “dato” e l’assoluta mancanza di standardizzazione, rende sicuramente non univoca la strada che porta verso l’analisi del materiale empirico. Trattandosi di una ricerca di sfondo[12], in fase di analisi l’obiettivo iniziale è stato esclusivamente quello di estrapolare dal materiale empirico a disposizione, delle possibili direzioni di osservazione e di indagine utili a costituire una buona base di partenza per definire  in modo più chiaro ed esaustivo sia l’interesse cognitivo iniziale che, di conseguenza, il possibile strumento di rilevazione adatto a coglierne le dimensioni empiriche. Le biografie orali sono state così analizzate orizzontalmente[13] cercando di trovare per ogni categoria teorica che ha informato la traccia di intervista ulteriori concetti o relazioni tra concetti che potessero indicare nuove dimensioni utili ad esplorare e/o inquadrare l’atteggiamento dei formatori nei confronti delle competenze emotive. La comparazione è consistita in un’attività di isolamento delle parti che rientrassero all’interno delle categorie cognitive: formazione ed esperienza professionale, atteggiamento nei confronti dell’esperienza emotiva, sistema delle rappresentazioni.
Per quanto riguarda la prima macro area si può affermare che quella del formatore è una figura poliedrica, sfaccettata e multidimensionale.   
Ciò che, da un’attenta rilettura delle interviste è balzato subito agli occhi, è un’associazione tra competenze da una parte e conoscenze e contenuti dall’altra. Questo per dire che l’idea di competenza  è stata immediatamente collegata ad aspetti contenutistici e solo in un secondo momento si è giunti a parlare di competenze emotive, di empatia, analisi del contesto, di capacità di autoanalisi e autocritica.
Vale la pena sottolineare un uso diffuso del termine “trasferimento” sia in riferimento alle competenze contenutistiche che emozionali. Questo è un aspetto sul quale riflettere. Si parla sempre più spesso dell’improponibilità di una logica formativa aderente al significato letterale del termine “formare” poiché, come afferma Lipari, questo corrisponde ad un’idea arcaica del processo di formazione ma soprattutto “è illusoria e destinata all’insuccesso[14]. Per descrivere i processi formativi probabilmente quello di “formazione” è il termine meno utile poiché rinvia ad un’idea del tutto riduzionista e quasi coercitiva di “ammaestramento” e “indottrinamento”[15]. Questo per dire che sarebbe bene che gli addetti ai lavori, dai più riflessivi ai più razionali, dessero il giusto peso alle molteplicità di distorsioni che tra i tanti, anche il termine “trasferimento” può comportare.
In pochissime occasioni è emerso esplicitamente un atteggiamento riflessivo e auto-critico del narratore. Sarebbe opportuno che la capacità di interrogarsi su ciò che si sarebbe potuto fare meglio valutando retrospettivamente l’efficacia del proprio lavoro rientrasse nel bagaglio professionale di ciascun formatore costituendosi come parte integrante.
Dall’analisi delle interviste, inoltre, è emerso che spesso sono le stesse organizzazioni a sottovalutare le competenze emotive dei formatori e a non tenerne conto.
Una linea di riflessione che è possibile individuare a conclusione di questa ricerca di sfondo, porta ad esplorare l’adeguatezza del concetto teorico di habitus[16]  per inquadrare alcune implicazioni empiriche dell’atteggiamento dei formatori nei confronti delle competenze emotive. In questo senso è possibile rintracciare all’interno di alcune narrazioni, una sorta di attitudine individuale nei confronti delle competenze emotive che si avvicina al concetto teorico del sociologo francese soprattutto nei suoi collegamenti con l’altrettanto centrale concetto di campo. A volte, cioè, gli attori sembrano aver interiorizzato lungo il percorso biografico e attraverso l’interazione all’interno dei diversi ambiti di vita, una particolare vicinanza o sensibilità con il lato più empatico ed emotivo delle relazioni sociali che  porta loro ad agire questa predisposizione anche e soprattutto in ambito professionale. In questi casi l’attitudine e la predisposizione “emotiva” sconfinano costantemente dal campo professionale per interessare altri ambiti di vita dell’attore.
Viceversa, laddove tale predisposizione non sia presente nel sistema di disposizioni individuali è molto difficile che questa venga appresa e dunque agita lungo il corso della carriera professionale come a suggerire una  difficile interiorizzazione di tale predisposizione laddove non sia già iscritta nell’habitus individuale oppure una sua sostanziale sotto rappresentazione all’interno della traiettoria formativa e professionale del formatore stesso.
 
 
 
 
 
Bibliografia
Bertaux D., Histoires de vies ou recits de pratiques? Methodologie de l’approche trasversale, Cordes, Parigi, 1976.
Bertaux D., Racconti di vita. La prospettiva etnosociologica, a cura di R. Bichi, Franco Angeli, Milano, 1999.
Bourdieu P., Il senso pratico, Armando editore, Roma 2005.
Bichi R., L’intervista biografica. Una proposta metodologica, Vita e Pensiero, Milano, 2002.
Jedlowski P., Storie comuni, Mondadori, Milano, 2000.
Lipari D., Formatori. Etnografia di un arcipelago professionale, Franco Angeli, Milano, 2012.
Melucci A., Parole chiave: per un nuovo lessico delle scienze sociali, Carocci, Roma, 2000.
Moscovici S., Farr R., Le rappresentazioni sociali, Il Mulino, Bologna, 1989.
Palumbo M., Garbarino E., Strumenti e strategie della ricerca sociale: dall’interrogazione alla relazione, Franco Angeli, Milano, 2004.

[1] Nel 1920 Thomas e Znanieki pubblicavano Il contadino polacco in Europa e in America.

[2] D. Bertaux, Histoires de vies ou recits de pratiques? Methodologie de l’approche trasversale, Cordes, Parigi, 1976.

[3] P. Jedlowski, Storie comuni, Mondadori, Milano, 2000.

[4] A. Melucci, Parole chiave, Carocci, Roma, 2000, p.125.

[5] Irene Pellegrini, Dottore di ricerca in Metodologia delle scienze sociali presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca sociale  dell’Università “Sapienza” di Roma. Nella sua tesi di dottorato Narrare l’omosessualità. Percorsi identitari, rappresentazioni riflesse e progetti di vita (2011, in attesa di pubblicazione) esamina approfonditamente le fasi del disegno della ricerca biografico-narrativa.

[6] D. Bertaux, (a cura di R. Bichi), Racconti di vita. La prospettiva etnosociologica, Franco Angeli, Milano, 1999, p.31.

[7] Cfr. I. Pellegrini, 2011.

[8] Cfr.  R. Bichi, L’intervista biografica. Una proposta metodologica, Vita e Pensiero, Milano, 2002.

[9] Cfr. I. Pellegrini, 2011.

[10] È stato ripreso il modello tripartito dell’atteggiamento proposto da Rosenberg e Hovland (1960) secondo cui gli atteggiamenti sono un costrutto psicologico costituito dalla componente cognitiva (informazioni e credenze verso un oggetto), affettiva (reazione emotiva verso l’oggetto) e dalla componente comportamentale/attiva (azioni di allontanamento o avvicinamento dall’oggetto).

[11] Per Moscovici,  le rappresentazioni sociali devono essere considerate come un modo specifico di comprendere e di comunicare ciò che già sappiamo. Le rappresentazioni sociali vengono considerate stabili e flessibili nello stesso tempo. Moscovici, al contrario di Durkheim, sottolinea il loro carattere mobile e mutevole. Le rappresentazioni sociali, dunque, non sono altro che l’elaborazione di un oggetto sociale da parte di una comunità che permette ai suoi membri di comportarsi e di comunicare in modo comprensibile (Moscovici 1963; citato in Palmonari, 1989, p. 39 oppure Moscovici, Farr, Rappresentazioni sociali, tr. It., Il Mulino 1989). Più specificamente sono sistemi cognitivi con una logica ed un linguaggio propri.

[12] Si parla di ricerca di sfondo poiché, come affermato da M. Palumbo ed E. Garbarino, è attraverso di essa che s’instaura un primo contatto con l’oggetto di studio (cfr. M. Palumbo, E. Garbarino, 2004, p.67).

[13] Per analisi orizzontale intendo l’individuazione e l’isolamento di temi e sotto-temi che vengono raggruppati e analizzati trasversalmente.

[14] Cfr. D. Lipari, Formatori. Etnografia di un arcipelago professionale, Franco Angeli, Milano, 2012, p.22.

[15] Ib. p.22.

[16] Cfr. P. Bourdieu,  Il senso pratico, Armando editore, Roma 2005.

 

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Giovedì, 13 Luglio, 2017 - 12:27