Recensione a cura di Cecilia Vedana
Il libro di Giuseppe Varchetta Fattori di benessere. Cronache di un formatore, edito da Edizioni Lavoro, è un’opera scritta in prima persona. Il lettore, infatti, sin dalle prime battute si lascia avvolgere piacevolmente dalla voce narrante che, in questo caso, si identifica nello stesso protagonista.
Inizia così il viaggio del formatore professionista, docente in seminari indirizzati ai dipendenti di grandi aziende impegnate in progetti di sviluppo organizzativo. E’ un viaggio che si compie sul filo dell’autoconsapevolezza, motore di ogni cambiamento e file rouge di questo libro. E’ presente, infatti, la ricerca di autoconsapevolezza da parte dell’organizzazione alle prese con questo complesso processo, che vede coinvolte persone, aspettative, ruoli, compiti e responsabilità. Parallelamente si sviluppa la drammatica ricerca di autoconsapevolezza da parte del protagonista, che soffre dell’incapacità di vivere una vita extra lavorativa piena, e conduce invece un’esistenza nella quale gli è quasi impossibile provare sentimenti di intimità con gli altri e soprattutto con se stesso. Il protagonista vive distaccato emotivamente dalla realtà e dai legami interpersonali. Imputa questa suo stato ad un episodio della sua giovinezza che al lettore pare quasi banale e tutt’altro che epico. Epica, invece, è la sua ricerca di senso, il suo drammatico chiudere la porta e la dolorosa consapevolezza di poter vivere solo quella dimensione di incompiutezza che lo fa stare a suo agio esclusivamente nel lavoro e che lo fa dire ad un amico che pare non capire “E dove sta scritto che un’esistenza debba essere obbligatoriamente un numero intero?”.
Ecco che il formatore, eccellente nel lavoro, ma un disastro della vita privata ed interpersonale, mette in atto le proprie doti nate proprio dal suo disagio e dalla sua sofferenza, doti di attenzione e di ascolto unite alla capacità favorire lo sviluppo di percorsi di autoconsapevolezza dei singoli e dell’intera organizzazione. Attraverso la testimonianza esperienziale, egli muove in aula sentimenti di attesa, stupore, conoscenza e partecipazione con la consapevolezza, esplicitamente espressa, che “formare vuol dire correre in soccorso, offrire un’ancora, non andare contro i meccanismi dell’azienda, ma cercare di collocare dentro di essa le storie di chi lavora”. Ed è proprio lì che si mette in gioco, è lì che ricuce il suo vuoto emozionale dando senso ai sentimenti dei quadri e funzionari dell’azienda. Quella è la sua dimensione, l’unica nella quale è in grado di vivere. Non recita, non è l’attore del film, ma il suo spettatore attento, capace di cogliere i messaggi e i segnali importanti, quelli da poter comunicare ed elaborare per una nuova costruzione per una nuova autoconsapevolezza. Ed è proprio come uno spettatore attento, che egli osserva le emozioni e le vite degli altri, e in linea con questa sua peculiarità, fa l’unico lavoro che può svolgere senza bluffare, l’unico lavoro che gli permette di essere davvero se stesso. Il lavoro è diventato per lui il suo sublime fattore di benessere.
Vita lavorativa e vita privata e personale seguono, durante l’intera narrazione, percorsi paralleli che non si incrociano. I due ambiti sono, infatti, ben distinti. Il primo vuoto e quasi scialbo, seppur caratterizzato dalla capacità di osservare le vicende di amici e conoscenti anche negli sviluppi più drammatici, il secondo quello lavorativo di formatore di successo, nel quale il protagonista riesce a tramutare il suo deficit privato in eccellenza.
Eppure questo libro è tutt’altro che la storia di una rinuncia, è al contrario la storia di percorso difficile e per certi versi incompiuto, che si svolge nella direzione di una nuova consapevolezza capace di spingere l’individuo, ma anche una grande organizzazione a vivere, anche incompiutamente il cambiamento, consapevoli, sì delle mancanze e dei limiti, ma alla ricerca costante non tanto di risposte, ma delle domande giuste da porsi per una nuova conoscenza, per un nuovo sviluppo.