di Stefania Capogna
Introduzione
Il counseling filosofico è una relazione di aiuto in cui vengono stimolati, attraverso strumenti tipici della metodologia filosofica, processi decisionali e chiarificatori, in grado di risolvere e rispondere a specifiche domande della vita (Berra, 2006). Il metodo filosofico per eccellenza corrisponde alla maietuca socratica. Il counselor è quindi un facilitatore che gioca il suo intervento attraverso il rapporto interpersonale che si caratterizza per un certo atteggiamento che consente di agire e intervenire sulle questioni della vita. L’atteggiamento filosofico consiste nel porsi innanzi al problema con una predisposizione mentale volta ad osservare e rispondere alle questioni del mondo, attraverso il supporto del dialogo socratico.
Il counseling si presenta come uno strumento efficace per affrontare la povertà della vita moderna; povertà simbolica, di significato, di linguaggio e di senso. La pratica filosofica si presenta come il territorio della narrazione, del racconto e della riattivazione della funzione di ascolto che si ricostruisce sperimentando l’ascolto altrui. “L’ascolto, come spazio di riattivazione del logos e quindi della capacità di produzione di senso di ogni individuo, è la dimensione che denota il counseling filosofico” (AA.VV, 2003/a:106).
A tutti gli effetti il counseling può essere riconosciuto come una relazione di aiuto in cui il counselor aiuta il soggetto a sviluppare le proprie abilità, a sviluppare una più ampia dimensione dell’essere (Lahav, 2004) ad acquisire maggiore autonomia, a maturare processi decisionali sofferti. In questo senso, il counseling è uno strumento di libertà e promozione dell’autostima.
Il problema che ancora oggi sconta il counseling filosofico consiste nel fatto che non esiste una visione unitaria teorica e metodologica all’interno della disciplina; mentre, come ricorda Rabee (2001) per trasformare una tendenza spontanea in una pratica professionale è necessario affondare la costruzione di un quadro di competenze distintive all’interno di un patrimonio solido e comune. Altro significativo problema è dato dal confronto serrato con gli ambiti più propriamente accademici che stentano a riconoscere la validità e il senso di una filosofia applicata, con il rischio di rinnegare l’autentica e originaria natura della filosofia come disciplina che indaga sul senso del mondo e dell’esistenza umana. Il saggio si sofferma sugli scenari del mutamento su cui tale rinnovato interesse per la pratica filosofica si insinua, per poi riflettere sui principi ispiratori del counseling filosofico e sul suo contributo nella chiarificazione di taluni ineliminabili dilemmi esistenziali e come strumento di empowerment per il soggetto. Il saggio qui presentato si pone un duplice obiettivo: a) presentare l’utilità del counseling filosofico nell’elaborazione di un proprio progetto di vita; b) evidenziare quali siano i concetti fondamentali e ricorrenti con cui ciascuno si confronta nel proprio sforzo di autoaffermazione e soggettivazione. Elementi questi che contribuiscono a chiarire il senso e il valore del counseling filosofico nel quadro della realtà odierna.
Gli scenari del mutamento
La società moderna, con lo sviluppo della scienza e del progresso tecnico non è riuscita a liberare l’uomo dal suo stato di necessità. Si può dire anzi che l’allentamento dei vincoli sociali e normativi, liberando l’uomo da rigide prescrizioni di ruolo (Parsons, 1962; Habermas, 1980) crea le condizioni per un diffuso stato di anomia (Durkheim, 1987) che lascia l’individuo ancor più solo e indifeso innanzi alla responsabilità del proprio destino biografico. La trasformazione dei sistemi socio-economici che è sotto i nostri occhi produce complessi processi di globalizzazione. L’instabilità del mondo del lavoro; il cambiamento dei sistemi organizzativi e relazionali e lo sconvolgimento dei tradizionali modelli di socializzazione e di trasmissione del sapere rendono l’individuo sempre più fragile, solo, errante (Maccarini, 2003). Viene meno qualsiasi ordine in questa nuova rete globale. Il soggetto non avendo più punti di riferimento stabili nelle tradizionali agenzie di socializzazione (scuola, famiglia, religione) si muove in maniera autonoma, costruendo il proprio percorso di auto socializzazione (Morcellini, 2002) all'interno di una pletora di opzioni. Il suo problema è scegliere quale di questa sia più importante, più veritiera e pertinente rispetto ai suoi interessi. Il nuovo attore sociale quindi appare incapace o impossibilitato ad assumere una identità stabile come nella educazione premoderna, tanto meno funzionale come nell'educazione moderna, dove la rigidità dei confini comunitari e sociali erano in grado di indurlo all’assunzione di un ruolo definito all’interno della più ampia struttura sociale. È un soggetto destinato a girovagare tra i molti sé, tra diversi contesti, a cambiare continuamente registro comunicativo, a definire costantemente le pertinenza di ciò che lo circonda. Inoltre, con l’affermazione della società dell’informazione (Castells, 2001) il soggetto si trova a costruire la propria identità all'interno di una - o per l'atto di una - comunicazione che lo “bombarda” da ogni dove e con un insieme di obiettivi, fini e informazioni spesso tra loro contraddittori. Il soggetto postmoderno dunque è solo davanti al proprio progetto di vita, davanti alla propria socializzazione, davanti alle molteplici fonti comunicative, e sopporta sulle sue spalle il peso di questa nuova libertà che lo “obbliga” a scegliere e a divenire, in una società sempre più sensibile alla performance, l’unico responsabile dei propri fallimenti.
In questa società liquida (Bauman, 2006), dunque, caratterizzata da una crescente quota di rischio (Beck, 2000) individuale e collettivo, si registra il diffuso accrescimento di una condizione di incertezza. Condizione resa ancor più pressante dall’ampliamento degli spazi di flessibilità (Sennet, 1999) che rendono sempre più indeterminata la condizione esistenziale, compromettendo anche la stabilità delle relazioni affettive e familiari che per lungo tempo hanno funzionato come spazio di contenimento di molte forme di disagio. La promessa della modernità di liberare l’uomo dal suo stato di necessità attraverso l’avanzare del progresso e della tecnica appare ormai ampiamente tradita (Harvey, 1990; Touraine, 1997) anche a causa dell’evidente ripetersi delle ingiustizie sociali e delle iniquità che la modernità non è riuscita a debellare. Il soggetto post-moderno quindi si trova costantemente teso tra lo sforzo di affrancamento e auto-affermazione rispetto al collettivo e il bisogno di protezione e riconoscimento da parte dello stesso. In un contesto in cui anche gli spazi della memoria collettiva sembrano ritirarsi il soggetto appare solo anche innanzi alla necessità di costruire e ricostruire incessantemente gli spazi della propria memoria individuale e sociale.
Come evidenzia il dibattito sociologico qui sommariamente riportato, si sta affermando un paradigma culturale orientato alla ricerca di una nuova riflessività (Beck, Giddens, Lash 1999; Archer, 2006). Questo diffuso senso di smarrimento investe anche i circoli accademici ed intellettuali che innanzi al tramonto della piena fiducia nelle scienze “dure” e nella potenza della tecnica sembrano orientarsi verso il recupero di un nuovo umanesimo (Heidegger, 1995) che guarda all’individuo in quanto tale nella sua quotidiana lotta di auto-riconoscimento e auto-affermazione, attraverso la necessaria ricerca di senso che ogni agire soggettivo richiede.
In questo percorso di rivisitazione delle coordinate generali un nuovo interesse si è diffuso attorno alla madre di tutte le scienze, la filosofia, rispetto alla quale si intravedono nuove potenzialità di applicazione, indipendente dai circuiti accademici che per decenni la hanno ridotta a mera speculazione teorica da svolgersi all’interno di salotti esclusivi.
La filosofia fuori dalle mura: i principi ispiratori
In questa nuova ricerca di senso la filosofia, torna a parlare alla gente, cerca di recuperare la tradizione socratica di phronesis, di promuovere la saggezza pratica che emancipa la mente dagli stereotipi e dai luoghi comuni, aiutando il soggetto a comprendere il senso e il significato del proprio essere e del proprio agire. Questa fuoriuscita dai salotti accademici avviene non senza fatica né spaccature. Sono molte le etichette che si susseguono nel tentativo di definire e inquadrare teoricamente la nuova tradizione filosofica (pratica filosofica, consulenza filosofica, counseling filosofico ecc). Spesso anche all’interno del medesimo orientamento filosofico si possono riscontrare rilevanti differenze interpretative e metodologiche. Ciò a conferma della vivacità del dibattito scientifico attorno al valore e alla centralità del ruolo che la filosofia può ancora assolvere nella società postmoderna. L’approccio qui assunto si focalizza sul counseling filosofico che affonda la sua matrice teorica nei contributi di Rogers, Rollo May e Jung.
Rogers (1970/a e 1970/b), a partire dagli anni ’40, promuove l’idea di un counseling non direttivo, basato sull’assunto che il soggetto abbia il diritto di scegliere le méte della propria vita in quanto egli riconosce la capacità emancipatoria di ciascun individuo. Secondo questa prospettiva ogni persona, nel momento in cui acquisisce l’insight, ed è nelle condizioni di vedere chiaramente, farà indiscutibilmente la scelta giusta. Quindi, l’obiettivo del consultore deve essere semplicemente quello di accompagnare questo processo di maturazione e la dimensione emotiva costituisce la via migliore per arrivare al centro dei problemi portati dalle persone. L’intervento del consultore è tanto più efficace quanto più riesce ad aiutare il soggetto nella riformulazione cosciente del sentimento senza schierarsi in alcun modo da nessuna parte. La sua è la funzione di uno specchio che mostra all’interlocutore il suo vero volto in modo che egli nella sua nuova percezione possa riorganizzarsi. Per questo i sentimenti ambigui devono essere discussi apertamente come quelli positivi e quelli negativi, poiché tramite la loro chiarificazione l’individuo viene messo nelle condizioni di trovare una via d’uscita.
May (1989) riconosce quale obiettivo finale del counseling la trasformazione della personalità. Egli sottolinea però che tale trasformazione non avviene attraverso i consigli. Fare il counselor e dare consigli sono funzioni distinte. Il consiglio è sempre superficiale, è l'indicazione di una direzione impartita dall'alto, un rapporto a senso unico; mentre il counseling opera in una sfera più profonda e le sue conclusioni sono il risultato di un lavoro congiunto di due personalità che operano allo stesso livello, all’interno di una relazione empatica fondata su un principio di parità.
Jung (1968, 1992) sostiene l’idea che nell'uomo esista una profonda forza creatrice positiva che tende verso il pieno sviluppo del sé, distanziandosi a questo proposito da Freud (1922) perché non accetta di risolvere ogni spiegazione dello sviluppo individuale attraverso la teoria degli impulsi sessuali. Tra i tanti strumenti concettuali che egli consegna al counseling filosofico, due ci sembrano particolarmente importanti: il concetto di anima che l’autore definisce come qualcosa di assolutamente complesso e molteplice a cui è impossibile accedere attraverso la semplice psicologia dell'istinto e quello di coscienza che, secondo la sua prospettiva, sgorga da una ignota profondità. Jung sollecita dunque l’idea che ciascuno abbia un suo “referente interiore” che si esprime attraverso il linguaggio dei sogni , delle immagini, dei simboli e degli archetipi. E ciascuno, per trovare la propria via, ha bisogno di imparare a relazionarsi con questo “referente interiore”, sviluppando un positivo e continuativo dialogo intra-personale. Cioè un dialogo riflessivamente orientato a se stesso.
Due sono quindi gli aspetti più importanti della consulenza filosofica: la focalizzazione centrata sul cliente, secondo l’insegnamento rogersiano e la natura dialogica del processo che persegue i principi del dialogo socratico.
Il counseling filosofico
Il counseling filosofico trae la sua origine da Achenbach che nel 1982, ha fondato la Geseschaft für die Philosophische Praxis, associazione e gruppo di studio che ha teorizzato una vera e propria metodologia teorico-tecnica per la “pratica” della filosofia. Achenbach (1987), dunque, è stato il primo a immaginare e sperimentare un rapporto di “cura” che invece di servirsi degli strumenti clinici delle scienze psicologiche, provasse a lenire dilemmi e sofferenze che accompagnano gli uomini nella quotidianità della loro esistenza, tessendo con loro un dialogo di accompagnamento nella riflessione sulla propria vita.
A circa trent’anni dalla sua fondazione, il counseling filosofico si è diffuso in tutto il mondo arrivando, anche se con un certo ritardo, in Italia, dove appare una pratica ancora poco conosciuta e strutturata. Sulla scorta di queste riflessioni, il counseling filosofico può essere definito come una discussione filosofica con le emozioni, i desideri, il comportamento, le aspettative o, più in generale, il modo di vivere di un individuo (Lahav, 2004). Il concetto essenziale che esprime la consulenza filosofica secondo Lahav è quello di visione del mondo. Nelle sue parole la visione del mondo è uno schema astratto che interpreta la struttura e le implicazioni filosofiche della concezione che un individuo ha di se stesso e della realtà. Esso è un sistema di coordinate che organizza, fa distinzioni, trae conseguenze, confronta, conferisce significati e senso ai vari atteggiamenti dell'individuo nei confronti di se stesso e del proprio mondo. Per questo la consulenza filosofica può essere caratterizzata da un approccio che aiuta i consultanti a interpretare la visione del mondo espressa dal loro stesso modo di vivere. La consulenza filosofica esplora le implicazioni filosofiche dei loro atteggiamenti quotidiani per scoprire le concezioni di se stessi e della realtà, e in questo modo schiudere la visione del mondo espressa dai loro comportamenti, dalle loro emozioni, ecc. È possibile interpretare problemi e dilemmi quotidiani del soggetto come espressioni di aspetti problematici della visione del mondo della persona, cioè contraddizioni o tensioni tra due concezioni del mondo in cui la vita dovrebbe/potrebbe essere vissuta. I filosofi possono usare le loro abilità di discernimento per accompagnare le persone alla scoperta delle incoerenze che sottostanno ai loro comportamenti e alle loro azioni. Questo aiuta i consultanti ad arricchire e sviluppare la loro visione del mondo, facilitando processi di cambiamento. Appare chiaro quindi che il consulente filosofico non offre contenuti filosofici, teorie preconfezionate, bensì offre abilità filosofiche connesse all'analisi concettuale, alla deduzione e alla descrizione fenomenologica, attraverso le quali aiuta il soggetto a discernere la propria visione del mondo, a ricomporre la frammentazione dei propri vissuti all’interno di un continuum di senso, ristrutturando e ampliando i confini della propria esistenza.
Si tratta di un vero e proprio percorso di crescita e di maturazione personale, finalizzato all’empowerment delle persone o, in altri termini, all’espressione della soggettività (Touraine, 1998) di cui ciascuno è portatore. Il valore aggiunto che può essere offerto dal counselor nella sua funzione di facilitatore è nella dimensione chiarificatoria di sostegno al processo di autoanalisi e/o a quello decisionale e, al contempo, nella valenza “formativa” che deriva dall’aiuto alla personale ricostruzione dell’esperienza. Tuttavia, come ricorda Rabee (2001) l’acquisizione da parte del soggetto di abilità funzionali a promuovere la riflessione filosofica non è scontata né automatica, bensì richiede un atto intenzionale mirato da parte del counselor e del consultante.
Già Popper (2000) ha riconosciuto che per estendere la sua conoscenza un individuo deve poter riconoscere gli errori commessi per ciò che sono; ciò significa percepire che c'è qualcosa di sbagliato, individuare che cosa era sbagliato, esaminare perché era sbagliato, e potremmo aggiungere, come superare l’errore. Senza questo insieme di capacità e disposizioni si rimane vittime delle circostanze e non si è padroni delle proprie azioni.
Secondo l’autore, dunque, la consulenza si presenta come la cura filosofica del sé, dove il consulente aiuta il soggetto a comprendere la natura del proprio disagio. In linea generale, l'intenzione del consulente è quella di condurre “un’ermeneutica del testo del cliente così come gli viene presentato realmente per poterlo aiutare a formulare una propria personale critica” (ivi). In altri casi, la consulenza filosofica aiuta l'interpretazione della visione del mondo; dunque essa sembra avere molte sfaccettature assumendo sia una funzione correttiva che preventiva, contenitiva e/o emancipativa rispetto a taluni dilemmi esistenziali o passaggi vitali che sono ineliminabili nella storia dell’umanità.
Il Counseling Filosofico come empowerment del soggetto
Lo sgretolamento della comunità (Tonnies, 1965) ove anche le più elementari norme sociali arretrano innanzi all’avanzare dell’individualismo (Bauman, 2001) nelle società postmoderne, lasciano l’uomo solo, senza più punti di riferimento né mediazioni rispetto al mondo in cui è “stato gettato” (Heidegger, 1927). In una società che si presenta ai suoi occhi oggettivata, dove confini e percorsi appaiono sempre più indeterminati, l’individuo ha perso i modelli di riferimento esterni (norme, valori, ecc.), assumendo su di sé il peso e il senso del proprio destino di vita. Il tramonto nella fiducia nel progresso come strumento in grado di liberare l’uomo dallo stato di necessità, lascia nuovamente l’uomo solo innanzi alle proprie angosce esistenziali.
In questo quadro di incertezza il soggetto si trova a fronteggiare sempre una notevole quota di “inconsapevolezza” rispetto alle scelte realizzate, cui consegue un ampio e articolato spettro di esiti non previsti, non necessariamente negativi (AA.VV., 2003/b), all’interno dei quali il counseling filosofico intende valorizzare la capacità autopoietica del soggetto attraverso interventi di facilitazione, sostegno e cura.
Vi sono temi fondamentali e ineliminabili nella vita di ciascuno a cui la società non può più rispondere con modelli preconfezionati e standard (l’approccio al lavoro, le scelte formative e professionali, la vita di coppia, le relazioni affettive, la cura di sé, il proprio essere nel mondo, la nascita e la fine della vita, finanche l’identità sessuale ecc). Temi che richiedono l’esercizio di una ineliminabile scelta e/o di una adesione personale. Da ciò emerge con chiarezza la tensione degli individui protesi verso il processo di soggettivazione (Touraine, 1997) che investe le società post-moderne nel venir meno di un quadro etico-normativo che obbliga la persona a un costante processo di costruzione della propria identità.
Questa nuova condizione impone al soggetto il paradosso di esercitare quotidianamente la propria libertà di pensare, agire, scegliere, ponderare, senza avere più bussole cui riferirsi. L’essere gettati nel mondo (Heidegger, 1927), la caduta (Bisvanger, 1993 ), in un tempo e in uno spazio che ci è dato, che ci precede e che ci contiene, e sui quali abbiamo un controllo sempre relativo, procura all’individuo uno stato di incertezza ineliminabile. Ecco allora che le domande fondamentali della vita tornano ad essere più attuali e imponenti che mai e chiedono a ciascuno di trovare la propria risposta, di avviare quella irrinunciabile conversazione interiore (Archer, 2006) e l’individuazione delle proprie strategie di azione, che sole possono condurre verso la scoperta di sé; scoperta già sollecitata dagli antichi greci: conosci te stesso .
Il counseling filosofico attraverso i suoi processi chiarificatori che valorizzano il dialogo socratico consente di sviluppare nel soggetto la riflessività caratterizzandosi come lo spazio e il luogo dove la soggettività può esprimere il suo percorso maturativo.
Maturità che può essere concepita, come ricorda Montedoro (in A.VV., 2003/b) come componente dinamica e momento di arrivo di un più generale processo di sviluppo personale fondato sull’auto-accettazione, su una relazione positiva con gli altri, su autonomia, padronanza dell'ambiente, finalizzazione della propria vita e apertura verso nuove esperienze. La centratura sull’individualizzazione che caratterizza le nostre società spinge sempre più il soggetto al centro di problematiche decisionali “situate”, che rimandano ad una volontà di decidere a tutti i costi, sul posto e sul momento, non sempre potendo prevedere gli esiti. A causa di questo stato di necessitò, secondo Kierkegaard (1993) la dimensione esistenziale dell'uomo è segnata dall'angoscia, e dal fallimento o “scacco esistenziale”. In continuità con questa idea Tillich (1952) sottolinea che l’angoscia esistenziale è parte ineliminabile della nostra vita e in quanto tale va affrontata e presa in carico. Inutile tentare di sopprimerla perché questo può condurre a stati di ansia patologici che sono il risultato del fallimento della persona nel farsi carico delle proprie angosce e del senso del proprio destino.
La prima delle questioni fondamentali è la dimensione ontologica dell’essere, il quale è sempre, e inevitabilmente, “gettato” all’interno di una definita dimensione spazio temporale sulla quale non si può avere alcun potere di scelta”. Come ricorda Heidegger (1927) “l'Esserci, in quanto emotivamente situato nel suo essere stesso, è già sempre insediato in determinate possibilità e, in quanto è quel poter-essere che è, ne ha già sempre lasciate perdere alcune [...]. Ciò significa che l'Esserci è un esser-possibile consegnato a se stesso, una possibilità gettata da cima a fondo”.
Del resto, come già evidenziato dal pensiero esistenzialista, la prospettiva temporale appare una fondamentale dimensione di autorealizzazione (Jaspers, 1964), in tal senso il tempo rappresenta la struttura portante dell’esistenza. La dimensione del tempo e dello spazio, e come ci relazioniamo ad essi, diventa centrale per ciascuno nella costruzione del proprio percorso biografico. Non possiamo scegliere dove e quando nascere ma possiamo scegliere come agire nel mondo e il senso da attribuire alle nostre stesse azioni e a ciò che ci circonda. In Kant spazio e tempo sono le condizioni necessarie di ogni esperienza, le forme a priori dell'intuizione. Lo spazio è la forma del senso esterno (lo spazio rende possibile la conoscenza degli oggetti secondo un ordine di coesistenza spaziale); mentre il tempo costituisce la forma del senso interno e del senso esterno (esso rende possibile la conoscenza della successione temporale degli stati d'animo e della percezione dei fatti esterni). Egli, seguendo la scia di altri autori classici prima di lui (Socrate, Platone, Aristotele, S. Agostino ecc.) ritiene che al centro del pensiero filosofico non si deve porre l'oggetto ma il soggetto. Nella sua prospettiva il tempo diviene, assieme allo spazio, una "forma a priori della sensibilità". Se gli esseri umani non fossero capaci di avvertire lo scorrere del tempo non sarebbero neanche capaci di percepire il mondo sensibile e i suoi oggetti che, anche se sono inconoscibili in sé, sono collocati nello spazio. Tutto ciò che esiste nel mondo fisico viene percepito e ordinato attraverso le strutture a priori del soggetto e ciò che, in prima battuta, viene collocato nello spazio viene poi ordinato temporalmente (come testimonia la memoria). Il nostro essere si sviluppa attraverso il susseguirsi di istanti temporali attraverso cui si costruisce un ponte tra passato, presente e futuro. Da ciò ne deriva l’importanza del nostro rivolgerci all’avvenire attraverso un orientamento progettuale capace di tessere una trama ed un continuum di senso tra futuro, presente e il passato.
Solo rivolgendo lo sguardo non all'esterno, verso le cose, ma all'interno, verso l'autocoscienza, si può rivelare un'altra dimensione del mondo e una diversa verità, che risponde al seguente assunto: "il mondo è la mia volontà". Secondo Shopenauer (1819) la volontà si fa strada attraverso il desiderio umano, che è segno di mancanza di qualcosa che provoca dolore; solo la realizzazione del desiderio fa cessare il dolore. La ricerca del desiderio può essere anticipata mediante l’immaginazione che attiva nel soggetto la capacità progettuale, di proiezione nel futuro possibile, orientando le sue risorse interiori verso l’autorealizzazione. Il progetto appare dunque (Heidegger, 1927) il modo d’essere costitutivo dell’uomo o la sua “costituzione ontologico-esistenziale”; la via attraverso cui si sviluppa la pienezza dell’essere.
Essenziale alla costruzione di un progetto di vita appare la dimensione immaginativa che aiuta ad orientare gli sforzi di investimento personale e relazionale. Imparare ad anticipare un futuro possibile e auspicabile è prova della capacità individuale di diagnosticare, cercare soluzioni, circoscrivere i limiti, intercettare possibilità e aiuti esterni, imparare a fronteggiare eventi. La capacità immaginativa è finalizzata a progettare la propria autorealizzazione nella vita, in coerenza con i propri interessi, vocazioni, valori ecc.. Affinché questo processo di crescita personale abbia buon esito è necessario sviluppare quella pratica riflessiva che consente al soggetto di conoscere le proprie motivazioni autentiche che per essere riconosciute richiedono spesso di poter uscire dal confine della solitudine per trovare conferme all’interno di un processo di “specchiamento”, cioè una interazione dialogica che consenta, attraverso la dimensione narrativa, anticipatoria o rievocativa, di definire la propria immagine di sé e immaginare un futuro possibile. E che non può prescindere dal riferimento alla coordinata spazio-temporale in base alla quale misurare le proprie scelte interiori e le opportunità in relazione al contesto di riferimento. (Dimensione questa che si rivela particolarmente complessa per molti giovani e adulti che faticano a ordinare in termini progettuali il raggiungimento dei propri obiettivi o che tendono a procrastinare le scelte o l’assunzione di responsabilità.
Come asserisce Risatti (2003), infatti, “l’uomo è un essere dialogico che vive in costante dialogo con se stesso” e con gli altri.
Il counseling filosofico dunque appare come uno strumento di auto-conoscenza privilegiato; spazio di crescita interiore dove anche la persona ben integrata e con un sufficiente grado di auto-consapevolezza può trovare un luogo di emancipazione soggettiva e/o contenimento innanzi alla “fatica di vivere”. La società contemporanea infatti caratterizzata da un contesto sociale sempre più complesso e frammentato, che consegna al soggetto margini crescenti di responsabilità in cambio di una maggiore autonomia dalle costrizioni collettive, richiede un crescente bisogno di riflessività dove anche la persona più “normale” può sentire il desiderio di “prendersi cura di sé”; ricercare spazi di crescita personale all’interno dei quali far maturare aspirazioni, obiettivi, interessi, progetti di sviluppo personale e professionale. Dunque, il counseling filosofico si costituisce come strumento dialogico privilegiato per aiutare il soggetto a riconoscere e/o riattivare quel “referente interiore” che consente di avere consapevolezza dei propri comportamenti nel corso delle proprie azioni; di ricomporre la frammentazione dei propri vissuti personali e professionali; è spazio di riflessione personale che riconosce il valore e l’importanza dell’intimo ammonimento di Jung (1992).
“Ho visto persone diventate nevrotiche per essersi accontentate di risposte inadeguate, sbagliate ai problemi della vita; cercano una posizione, il matrimonio, la reputazione, il successo esteriore o il denaro, e rimangono infelici o nevrotiche anche quando hanno ottenuto tutto ciò che cercavano. Persone del genere di solito sono confinate in un orizzonte spirituale troppo angusto. La loro vita non ha sufficienti contenuti, non ha significato. Se riescono ad acquistare una personalità più ampia generalmente la loro nevrosi scompare […]. Per essere ragionevole l’uomo dovrà cominciare con l’esaminare se stesso, e poiché l’autorità non riesce a dirmi più nulla io ho bisogno di una conoscenza delle intime radici del mio essere soggettivo”.
Per concludere si può dire che il counseling filosofico si costituisce come un‘opportunità di auto-educazione che attribuisce particolare importanza al soggetto e al riconoscimento e valorizzazione della sua esperienza e attraverso la riflessione sull’agire concreto e i relativi contesti di riferimento mira alla trasformazione soggettiva e alla liberazione di quella energia creativa che sole conducono verso la piena realizzazione del sé. In tal senso il counseling filosofico rappresenta un processo di evoluzione e maturazione soggettiva all’interno del quale ricercare la propria auto-realizzazione ma anche il riconoscimento e la ri-elaborazione delle conoscenze, la valorizzazione delle competenze e la costruzione della propria identità sociale e professionale. Costruire e sviluppare una propria identità consente al soggetto di conoscere le proprie potenzialità e le proprie possibilità e, conseguentemente, di proiettarsi verso la realizzazione di un progetto di vita, che renda autonomi e autosufficienti.
In questi termini il counseling filosofico, con il suo primario intento di garantire l’empowerment delle persone, si presenta come una relazione di aiuto in cui vengono stimolati processi chiarificatori con l’obiettivo di risolvere complessi percorsi decisionali e rispondere a specifiche domande sul senso della vita e del proprio essere nel mondo, ricostruire la frammentazione dei vissuti personali e attivare percorsi progettuali soddisfacenti. Questo percorso di crescita interiore è reso possibile attraverso la valorizzazione e/o la riattivazione del proficuo dialogo intra-personale (cui sempre tende il counselor) con quel “referente interiore” (Jung, 1968) che rappresenta una risorsa importante per registrare le “stonature” che nel corso della vita possono far perdere “ritmo” ai diversi stadi dell’essere - pensiero, cuore, anima o azione-, alterando in noi il senso e/o la percezione del nostro “essere nel mondo”.
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