di Domenico Lipari*
1. Oltre la formazione apparente: nota preliminare sulla formazione nelle amministrazioni pubbliche
Una riflessione preliminare sull’azione formativa nelle amministrazioni pubbliche riguarda la crescente rilevanza che va assumendo la questione del cambiamento organizzativo e culturale nella PA.
Non c’è dubbio sul fatto che le misure normative degli ultimi quindici anni circa, al di là di ogni analisi sulla loro concreta attuazione, abbiano cominciato ad introdurre innovazioni forti nel corpo degli ordinamenti dell’amministrazione (e su questa constatazione la maggior parte delle riflessioni disponibili sembra convergere, anche se si tratta di analisi che tendono a privilegiare una lettura delle dimensioni formali del cambiamento).
Il vero problema si pone quando si passa dalla dimensione normativa a quella delle azioni capaci di sostenere e favorire i processi di cambiamento, proprio perché il successo di una strategia di innovazione non può essere affidato solo alle leggi le quali, come è noto, sono una condizione indispensabile, ma del tutto insufficiente. Occorrerebbe insomma essere in grado di accompagnare i fenomeni di cambiamento. Ma per riuscire a pilotare adeguatamente il cambiamento non basta una visione strategica più o meno chiara; è necessario conoscere il campo d’azione, poiché, da questo punto di vista, è più che mai vero, come è stato notato da K. Weick, che «un’organizzazione non può sapere dove va se non sa che cosa è».
Purtroppo, su questo terreno, in Italia occorre misurarsi con un grave deficit di conoscenze sistematiche riguardanti il funzionamento concreto delle amministrazioni pubbliche a tutti i livelli della loro articolazione. Mancano, in sostanza, grandi analisi sul fenomeno burocratico italiano che siano, ad esempio, comparabili per spessore e paradigmaticità agli studi crozieriani sulla burocrazia francese: la ricerca Giannini dei primi anni 80 del secolo scorso, che pure ha avuto grandi meriti, non ha potuto, data la sua impostazione, affrontare in termini interpretativi la questione del funzionamento concreto dei sistemi d’azione della pubblica amministrazione.
E’ dunque fondamentale che le autorità pubbliche e la comunità scientifica assumano un impegno di ricerca e di studio finalizzato a colmare, anche parzialmente, i limiti conoscitivi ed a portare, per questa via, indicazioni utili all’azione di sostegno dei processi di cambiamento.
Tuttavia, partendo dalle conoscenze disponibili, comprese quelle intuitive e di senso comune rintracciabili nel dibattito corrente sulla riforma della PA, vi sono alcuni punti di attacco largamente condivisi che aiutano a costruire politiche attive di supporto al cambiamento complementari rispetto alle innovazioni normative già prodotte.
Uno di essi, fondamentale dal nostro punto di vista, è costituito dalla critica del garantismo e della cultura della conformità normativa che sono i capisaldi che storicamente hanno determinato quello scambio perverso tra basse retribuzioni da un lato e garanzia del posto di lavoro dall’altro: uno scambio che, a sua volta, ha largamente contribuito a generare un sistema burocratico pesante e fondato sulla bassissima qualità delle prestazioni lavorative.
Alla cultura lavorativa/organizzativa tradizionale bisogna tentare di sostituire una cultura organizzativa basata sulle seguenti opzioni di principio :
a) decentramento decisionale ;
b) responsabilità ;
c) riconoscimento dei meriti ;
d) orientamento al cittadino;
e) professionalismo.
Queste 5 opzioni di principi assumono una rilevanza centrale dal nostro punto di vista, poiché valgono come un punto di riferimento per azioni che facciano leva non solo sull’applicazione dei dispositivi normativi, ma anche e soprattutto su una strategia di rimotivazione che passi attraverso una restituzione di senso, di dignità e di identità organizzativa e sociale al lavoro dei quadri pubblici.
L’ultima in particolare, quella che fa riferimento al professionalismo, ci porta direttamente nel nostro campo specifico, quello della formazione, da considerare sempre più come uno degli strumenti utili per favorire ed accompagnare il cambiamento organizzativo.
Ma occorre chiedersi quale formazione bisogna promuovere per la PA.
Una prima schematica risposta segnala una formazione che sappia superare (e radicalmente) i limiti che ne caratterizzano la più diffusa pratica tradizionale, la quale - se si escludono le rare e significative eccezioni che hanno fortunatamente cominciato ad affermarsi - è emblematicamente contrassegnata da forme acute di scolasticismo sul piano delle metodologie d’azione e di giuridicismo su quello dei contenuti.
A questo livello, l’innovazione dovrebbe incidere in profondità ed investire direttamente, sul versante metodologico, sia l’azione progettuale sia gli stili di realizzazione. Quanto ai contenuti delle attività, bisognerebbe introdurre nell’asse contenutistico della formazione dei quadri pubblici, specie di quelli che ricoprono ruoli dirigenziali, alcune aree specifiche di saperi tradizionalmente semi-clandestine nelle (o del tutto escluse) dalle attività didattiche - come, ad esempio, l’implementation e la valutazione delle politiche, la cultura dei servizi, il management delle risorse umane , il controllo di gestione.
Occorre inoltre favorire lo sviluppo di una cultura dell’azione formativa che sia in grado di assumere e valorizzare alcuni tra i più recenti contributi della ricerca in campo formativo ed organizzativo, e bisogna segnalare, tra l’altro, l’utilità del recupero della nozione di «competenza professionale» con tutte le implicazioni che da tale recupero potrebbero derivare sul versante dell’ancoraggio concreto della pratica formativa ai contesti organizzativi : poiché infatti la nozione di competenza si riferisce direttamente a comportamenti lavorativi/organizzativi osservabili (sono in effetti saperi di base ridefiniti e reintrepretati contestualmente dai soggetti che ne detengono i contenuti), essa costituisce un rilevante punto di snodo che rende feconda e concretamente praticabile la relazione tra azione organizzativa e processi formativi.
Sulle competenze (ed a partire da esse, cioè dalla loro promozione per via didattica), la formazione può agire a crescenti gradi di complessità, impegno ed investimento nella consapevolezza che ogni tipologia di intervento formativo (competenze di base, tecnico-specialistiche, relazionali...) presuppone almeno un minimo di esplorazione dell’organizzazione.
2. Analisi dei bisogni per una formazione pertinente
In questo quadro interpretativo (che considera l’azione formativa come strettamente legata ai processi organizzativi entro cui si svolge) e considerato il contesto di riferimento del nostro discorso (la formazione per gli attori pubblici ai quali si rivolge la SSPAL), la comprensione dei bisogni di formazione può essere affrontata con un sufficiente grado di sicurezza muovendo da un assunto di base: la formazione pertinente (contrariamente a quella apparente, intesa come formazione di facciata inutile ed ininfluente) è quella che si progetta e si realizza avendo come referente le organizzazioni, quella cioè che ha lo scopo di farsi carico, all’interno di un’organizzazione determinata, dei problemi emergenti tra i suoi membri in termini di bisogni formativi.
E per bisogni formativi intendo l’insieme delle esigenze di accrescimento e/o di miglioramento e/o di aggiornamento delle competenze professionali che in forma latente o manifesta sono sempre presenti in tutte le organizzazioni.
Da questo punto di vista, l’analisi dei bisogni – e qui c’è convergenza assoluta tra tutte le prospettive metodologiche - costituisce il “passaggio” cruciale (e preliminare) di ogni azione formativa e dell’intero processo di formazione che come è noto si snoda lungo una “catena” di azioni tecniche interconnesse e interagenti che parte proprio 1) dall’analisi dei bisogni per dar luogo alle rimanenti operazioni tecniche costituite 2) dalla progettazione delle attività, 3) dalla loro implementation e infine 3) dalla valutazione.
In sede di analisi dei bisogni si determina in primo luogo la consistenza quantitativa e qualitativa delle azioni formative da progettare e realizzare; e prende forma, in secondo luogo, quella dinamica tra committente (l’organizzazione che chiede e paga la formazione) da un lato e la struttura di implementation (cioè l’agenzia tecnica) alla quale è affidato il compito di realizzare la formazione.
Questo punto di vista mette bene in evidenza la rilevanza tecnica e la delicatezza politica che assume il passaggio dell’analisi dei bisogni e la sua duplice valenza metodologica e al tempo stesso relazionale. Tenerne conto significa assumere consapevolezza del fatto che quanto maggiori sono l’attenzione e l’impegno che l’agenzia di formazione dedica all’analisi dei bisogni, tanto più elevate sono le probabilità che le successive operazioni tecniche (progettazione, realizzazione e valutazione) abbiano successo.
Senza cadere nel determinismo metodologico non è fuori luogo sostenere che da una buona analisi dei bisogni deriva spesso una formazione di qualità.
2.1. Approcci all’analisi dei bisogni
Sul terreno delle modalità concrete di realizzare l’analisi dei bisogni (e rimanendo entro la logica del mio ragionamento fondato sull’imprescindibilità del nesso tra processi organizzativi e pratiche formative), vorrei dar conto molto brevemente delle principali prospettive di metodo maggiormente ricorrenti sia in letteratura, sia nella pratica dei formatori e delle agenzie di formazione.
a) la prospettiva funzionale
E’ legata ad una visione deterministica della formazione che corrisponde in modo del tutto speculare ad un modello organizzativo classico (ormai superato in letteratura e nella gran parte delle strutture contemporanee, ma ancora vitale in moltissime organizzazioni); mi riferisco allo schema taylorista dell’organizzazione, che considera l’uomo al lavoro né più, né meno che una sorta di prolungamento delle macchine e, proprio per questo, le sue capacità lavorative non solo dovranno meccanicamente rispondere alle disposizioni del management, ma dovranno necessariamente essere piegate alle esigenze dell’organizzazione.
In base al principio della one-best-way, che postula la possibilità che per ogni attività ci sia un modo ottimale ed unico di svolgerla, una volta attribuiti i compiti agli operatori, si tratterà di garantire - e questo è l’aspetto cruciale dal punto di vista del nostro discorso – che ciascuno di loro sia in grado di svolgerli in modo del tutto corrispondente alle specificazioni definite in sede di pianificazione del lavoro e trasmesse per via formativa agli operatori.
In simili condizioni la formazione assume precisamente la funzione di snodo cruciale dei processi di riproduzione tecnica e di funzionamento dell’organizzazione: essa infatti garantisce le pre-condizioni affinché le capacità operative dell’individuo siano piegate alle esigenze dei compiti che l’organizzazione ha predefinito e deciso che lui svolga.
E allora l’analisi dei bisogni sarà del tutto appiattita alle esigenze dell’organizzazione: la risultante tecnica di questa «visione» è la celebre job/skill analysis che in una semplice matrice registra le caratteristiche delle posizioni lavorative (definite in termini di compiti), da un lato, e, dall’altro, le capacità/abilità necessarie, da acquisire per via formativa, allo svolgimento di tali compiti. La determinazione delle abilità necessarie (e da far corrispondere) a ciascun compito costituisce dunque l’essenza di questo primo approccio all’analisi dei bisogni.
b) la prospettiva organica
La seconda prospettiva tende a mettere in discussione la logica del determinismo dell’organizzazione anche sul terreno applicativo per fare spazio a concezioni più temperate ed al tentativo di una tendenziale ricomposizione della frattura tra uomo ed organizzazione.
Ci si rende conto dei radicali limiti dell’economicismo che caratterizza il modello funzionalista e cresce la consapevolezza dell’importanza delle dimensioni relazionali dei processi organizzativi e della non riducibilità degli attori nelle organizzazioni a mere funzioni meccaniche.
Ci si rende conto inoltre della complessità e dell’instabilità degli ambienti con i quali le organizzazioni interagiscono e questo spinge inevitabilmente a porsi nuovi e più dinamici problemi di adattamento. Da qui la necessità di riconoscere la rilevanza sociale delle organizzazioni e la loro caratteristica di sistemi sociali dotati di specificità difficilmente «governabili» secondo i principi dello scientific management.
Questa nuova logica si basa sul riconoscimento di alcuni fattori. Tra questi, bisogna ricordarne almeno due che risultano particolarmente rilevanti ai fini del nostro discorso:
1) la rivalutazione dell’importanza delle dimensioni affettive, umane e relazionali nella vita organizzativa;
2) la «scoperta» della crucialità delle relazioni tra organizzazione ed ambiente ai fini della sopravvivenza e dello sviluppo delle organizzazioni stesse.
Ci troviamo dentro la prospettiva dell’organizzazione come «sistema organico» che, al pari degli organismi viventi, è fortemente sensibile agli «stati» dell’ambiente. E allora, creare le condizioni che favoriscono l’adattamento del sistema al suo ambiente diventa di vitale importanza.
Inoltre, secondo questo approccio, i fattori tecnici della produzione e dell’organizzazione non sono più un imperativo assoluto, ma bisogna tener conto del contributo, dei bisogni e delle esigenze degli individui oltre che della loro caratteristica di soggetti capaci di adattamento autonomo agli imprevisti ed alle variabilità interne così come a quelle esterne.
Ecco perchè la formazione, secondo questo indirizzo è parte integrante della pratica organizzativa.
In questa prospettiva, l’analisi dei bisogni è un’attività piuttosto complessa rispetto alla quale è richiesto un bagaglio di strumenti intellettuali metodologici di una certa finezza. Ci si deve interrogare innanzitutto su cosa debba intendersi per bisogno di formazione e, in secondo luogo, su come procedere per individuarlo ed analizzarlo.
La prima questione, mette in evidenza il fatto che i bisogni corrispondono, non già agli imperativi funzionali del sistema assunti unicamente dal punto di vista dell’organizzazione ed ai quali far corrispondere per adeguamento meccanico le prestazioni degli individui, ma corrispondono all’esigenza di integrare le varie parti del sistema in modo tale da garantire il suo equilibrio e dunque il suo funzionamento appropriato.
Nella sua configurazione più compiuta, l’analisi dei bisogni è quindi intesa come una sorta di lettura congiunta delle esigenze formative espresse dall’organizzazione e dagli individui in un’ottica capace di trovare mediazioni appropriate tra punti di vista non necessariamente omogenei (anzi talora conflittuali) in un’ottica che pone l’agenzia di formazione al centro di una dinamica tripolare nella quale il suo ruolo è quello di comporre in un disegno equilibrato le indicazioni dei «committente» e quelle dei «clienti/utenti».
La seconda questione, riguarda, una volta chiarito il senso dell’operazione, le modalità con cui lavorare all’analisi dei bisogni di formazione. Su questo terreno lo schema metodologico maggiormente condiviso tra gli addetti ai lavori prevede attività (a) di raccolta di informazioni sui «bisogni dell’organizzazione» (dati strutturali, sul personale, sulla formazione) e «sui bisogni degli individui» (dati sui compiti svolti, sul ruolo, sui problemi connessi alle attività, sul sistema delle aspettative); (b) di interpretazione prima e poi di sintesi delle conoscenze acquisite all’interno di un disegno che soddisfi tutti gli attori implicati.
c) le prospettiva dell’apprendimento
Questa terza prospettiva deve essere associata alle più recenti tendenze della cultura organizzativa e della pratica formativa che si strutturano attorno alla riflessione sui tratti caratteristici delle società contemporanee variamente descritte come società della conoscenza, società postindustriali, società dell’immateriale, società globalizzate o società della modernizzazione riflessiva.
Quale che sia l’etichetta utilizzata, le interpretazioni riferite a ciascuna di esse convergono nel delineare uno scenario caratterizzato da alcuni tratti distintivi che provo a sintetizzare così:
1) centralità del ruolo dell'alta tecnologia e dei servizi divenuti settori di fondamentale importanza nell'economia dei paesi più avanzati;
2) internazionalizzazione e dinamizzazione mai prima conosciute delle relazioni e degli scambi (la cosiddetta globalizzazione);
3) instabilità dei mercati e conseguente crisi di ogni ipotesi di pianificazione rigida e di lungo periodo della produzione;
4) crucialità dei processi di generazione, acquisizione, trasformazione e distribuzione delle conoscenze.
Per effetto di questi fenomeni, ciò che appare sempre più vitale e decisivo per le organizzazioni sono le capacità intellettuali applicate alla ricerca, alla scoperta, all'invenzione ed alla circolazione delle soluzioni innovative richieste dal continuo emergere di nuovi problemi e di nuovi bisogni.
Le linee emergenti in campo organizzativo mentre da un lato mettono in crisi le forme tradizionali, dall’altro, tendono a privilegiare soluzioni che aiutino a fronteggiare l’incertezza, l’instabilità dell’ambiente, la frammentazione dei mercati e che mostrino di essere soluzioni capaci di sfruttare i vantaggi delle nuove tecnologie di produzione.
Ecco allora prendere forma configurazioni organizzative basate sulla logica di rete, sul parziale appiattimento delle gerarchie, sulla comunicazione orizzontale, sul decentramento delle responsabilità, sull’adattamento reciproco orientato alla soluzione anche dal basso dei problemi che la vita lavorativa genera incessantemente.
Quindi il senso della formazione (oltre che la sua legittimazione pratica) non risiede (più soltanto) nella mera trasmissione di nozioni, di savoir faire o di comportamenti, ma anche (e soprattutto) nella capacità di stimolare gli attori a ragionare sui problemi che essi affrontano quotidianamente.
La nuova formazione è legata ad approcci riflessivi centrati sull'esperienza degli attori, sui problemi quotidiani della vita organizzativa, sulle modalità di soluzione dei problemi che gli attori stessi inventano e sedimentano in forme specifiche di sapere. Nelle pratiche formative si vengono consolidando, interessi, sensibilità e capacità orientate all’ascolto, nella consapevolezza del fatto che gli attori organizzativi dispongono di gradi di autonomia soggettiva e di capacità di inventare soluzioni innovative a problemi.
Sul piano delle metodologie d’azione – con particolare riferimento a quelle che maggiormente ci interessa qui discutere - si viene affermando e consolidando un’interpretazione dell’analisi dei bisogni orientata a valorizzare le forme localmente date con cui si esprime e si manifesta l’apprendimento organizzativo e a recuperare la nozione di competenza professionale.
La tendenza principale è legata, da un lato, all’interesse per le dinamiche in continua evoluzione delle competenze professionali dei soggetti e, dall’altro, alle caratteristiche dell’apprendimento generativo.
Con una conseguenza fondamentale: la classica analisi dei bisogni tende a dissolversi e ad indentificarsi nell’analisi organizzativa e nella ricerca-azione (anche nella sua variante di formazione-intervento) o in approcci orientati a scoprire le forme locali dell’apprendimento organizzativo o a sostenere la coltivazione di comunità di pratica, oppure ad essere utilizzata come supporto ad interventi di cambiamento organizzativo.
3. Quale metodo?
Concludo con una domanda. Quale prospettiva scegliere? Nessuna in astratto, ma quella che si mostrerà più adeguata al contesto.
Il che significa, molto pragmaticamente, che la determinazione di una strategia di analisi dei bisogni (e delle conseguenti scelte tecniche) dovrà fare i conti con le caratteristiche del campo d’azione.
(Ad esempio, in un’impresa tradizionale caratterizzata da scarsa dinamicità nella struttura della produzione, da stabilità dei compiti e da relazioni stabili con il suo ambiente, probabilmente saranno sufficienti strategie di analisi del bisogni del primo tipo. Analogamente, in un’azienda esposta a continue variazioni delle sue relazioni con l’ambiente ed esposte ad una forte concorrenza, in cui le poste in gioco sono date dalla capacità di adattarsi creativamente alle sfide del mercato dalle quali dipende in ultima analisi la sopravvivenza stessa dell’organizzazione, l’analisi dei bisogni - se così la possiamo chiamare - dovrà assumere scelte vicine alla terza prospettiva. Vi sono poi situazioni aziendali e organizzative per così dire “intermedie” per le quali sono appropriate le analisi dei bisogni del secondo tipo)
In ogni caso, quello che è importante sottolineare sul terreno del metodo dell’analisi dei bisogni è l’utilità di una prospettiva ispirata ad una logica sensibile al contesto. Il che significa che nessuna ricetta metodologica è valida a priori, ma è necessario (oltre che utile) costruire il metodo di analisi in rapporto al contesto, ai suoi problemi alle sue esigenze.
Ovvero, volendo sintetizzare con uno slogan: a ciascun contesto organizzato (con le sue culture del lavoro e le sue pratiche specifiche), la sua analisi dei bisogni.
Vorrei chiudere con una sottolineatura: la rilevanza cruciale dell’analisi dei bisogni è data dal fatto che, come ho già segnalato, le scelte operate su questo terreno determinano (ed orientano) in larga misura ciò che avviene dopo l’analisi dei bisogni. Poiché infatti nella configurazione classica del “processo formativo” l’analisi dei bisogni precede la progettazione e quest’ultima, a sua volta, nella misura in cui è il cuore dell’azione formativa, costituisce (e precede) la realizzazione, che è infine seguita dalla valutazione, è chiaro che le scelte metodologiche sul terreno dell’analisi dei bisogni avranno conseguenze non irrilevanti sul terreno dei metodi di progettazione e di valutazione.
* Docente presso la Facoltà di Scienze politiche, Sociologia e Comunicazione dell’Università “La Sapienza” di Roma. Direttore scientifico del webmagazine “Formazione&Cambiamento”